a cura di Alberto Mazzacchera
IL PALAZZO PUBBLICO
L’altra rilevante fabbrica nella città di Cagli nella cui storia architettonica si saldano in maniera significativa i nomi di Francesco di Giorgio Martini (1439-1501) e del duca Federico da Montefeltro (1422-1482) è il duecentesco Palazzo Pubblico.
Con tale termine, ancora in parte utilizzato nell’Ottocento fino a prima dell’Unità d’Italia, si intende l’edificio che prospetta sull’antica piazza maggiore e che è il frutto dell’accorpamento di tre distinte fabbriche aventi differenti funzioni seppure tutte intrinsecamente legate alla vita del libero Comune.
Il palazzo che con l’austera facciata duecentesca domina la quadrangolare piazza principale della città era indicato come palazzo grande o maggiore anche se nella prima metà del Seicento (ma ormai l’accorpamento delle sopracitate fabbriche era avvenuto) torna per un certo tempo a prevalere l’uso del termine di palazzo del duca.
Questo edificio innalzato quale luogo della magistratura cittadina, che in antico era in Cagli indicata con i termini di magistrato ed anche di pubblico, tranne la parentesi ducale, ha mantenuto inalterata sino ad oggi la sua funzione originaria.
Nel quartiere di Sant’Angelo, verso la chiesa dedicata a San Michele Arcangelo detta anche di San Giuseppe, erano invece ubicati il palazzo del Podestà e la struttura carceraria. Due edifici distinti ma tra loro inscindibilmente correlati dall’esercizio della funzione giudiziaria.
La donazione al duca Federico impone, oltre un secolo e mezzo dopo, al Comune il dover difendersi dalle pretese avanzate dagli agenti inviati dai granduchi di Toscana.
Ecco perciò che il 10 novembre del 1631 si sottolineava in Consiglio che era “venuto in questa Città […] un Gentilhuomo fiorentino per pigliare possesso delli beni Ereditary” e con preoccupazione si evidenziava come “s’intende che vogli anco pigliare posesso della nostra Montagna, e Palazzo”
Dalla relazione difensiva, volutamente sbilanciata, stilata da Gianfrancesco Castracane e da Antonio Gucci per conto del magistrato calliense, si evidenzia l’uso del Palazzo “per l’habbitatione e residenza che vi ha fatto il magistrato di detta Città sino a detto tempo. Per havervi tenuto gli Officiali publici, che sono di Cancellaria, Appasso, Danno dato, Archivio, Tribunale del Giudice, e Scola. Per le scene e palco, che vi teneva continuamente per recitare le Comedie. Per l’Horologgio e sfera, per il principio d’una loggia per alcune pitture, et altre cose fatte in detta Casa, à spese della Comunità e di suo arbitrio […] Per alcuni Capitoli del nuovo statuto confirmati dal Sig. Duca Francesco Maria II, dove si dice che il Monte della Pietà si debba fare in una stanza del Palazzo dove habbita il Magistrato”.
Il Palazzo grande o maggiore sede, dunque, della magistratura, riedificato a seguito della traslazione della città del 1289, secondo il Gucci nel 1296 doveva essere ormai terminato.
Poco meno di due secoli dopo Federico II da Montefeltro, che nel 1474 aveva infine dopo non breve attesa ottenuto l’ambita dignità ducale che era già stata di Oddantonio, avrebbe accolto quello che si configura come un dono motu proprio della città di Cagli, ma che più verosimilmente sembrerebbe in larga parte il frutto di un’abile operazione condotta da quel corpo diplomatico che era la punta di diamante delle Signorie italiane.
Tale liberalità operata dal comune di Cagli, analizzata anche dal Tommasoli, si configura però come caso emblematico di quel percorso in atto basato sull’erosione dei poteri autonomi delle comunità che si avvale di un crescente benessere economico come arma di persuasione. In quest’ottica di riforma profonda delle preesistenti strutture politiche ed amministrative condotta da un Federico da Montefeltro determinato ma al contempo attento a non provocare forti reazioni, il “processo quasi fisiologico di accentramento crea una cassa comune fra le entrate del principe e quelle del suo Stato”.
Con lettera del 13 gennaio 1477 il Duca comunica al Pubblico di Cagli di accettare il dono delle entrate che fa seguito a quello del Palazzo avvenuto nel 1476.
Il Pubblico calliense nel 1477, per mezzo di due ambasciatori, dava disponibilità per “ogni aiuto per la fabrica del Palazzo che venivasi facendo […] e questo aiuto era in somministrare operaiy, pietre, legnami, et ogni altra cosa bisognevole a tale edificio”.
Per la fabbrica del Palazzo il Duca, con lettera del 27 gennaio 1477, faceva inoltre sapere che avrebbe inviato in Cagli “Tomasso di Simone suo maestro dell’entrate”. Dal contenuto delle menzionate lettere ducali si desume, dunque, che nel 1476 il Palazzo era già stato concesso a Federico da Montefeltro, il quale come segno del rinnovamento delle istituzioni aveva dato avvio alla profonda ristrutturazione delle strutture medioevali affinché anche i nuovi canoni architettonici impiegati potessero testimoniare la cultura nuova di cui era portatore l’illuminato principe.
Il gesto politico della donazione è da collegare solo in parte alla concessione del titolo ducale avvenuta nel 1474. I cagliesi non potevano certo aver dimenticato che esattamente un secolo prima era nato, scrive Franceschini, “uno Stato regionale, espressione della famiglia principesca e delle città di Urbino e di Cagli e dei loro contadi”. Occorre sottolineare che “nell’alleanza del febbraio 1376 le città di Urbino e di Cagli partecipavano al patto col Signore su piede di uguaglianza come compartecipi agli impegni ed agli oneri stipulati da lui, mentr’egli agiva a nome delle terre che gli ubbidivano quale ‘dominus’ e capo delle milizie”.
La genesi dello stato d’Urbino aiuta a meglio comprendere l’atteggiamento prudentissimo dei Montefeltro che all’interno della città di Cagli non costruiscono ex novo un Palazzo degno del loro rango ma che sanno attendere per ben un secolo.
Della reale portata del processo di profonda trasformazione architettonica degli edifici duecenteschi i recenti lavori di restauro hanno consentito una precisa lettura.
Occorreva, dunque, riplasmare le strutture per dare, in quella che era la terza città per importanza del Ducato e che aveva concorso alla nascita dello stesso, un segno tangibile dello stato dei Montefeltro che Federico non voleva secondo a nessuno ma che tutti doveva superare.
I lavori avviati nel 1476 proseguivano a quanto pare celermente. La fabbrica del palazzo ducale doveva essere entrata in una fase avanzata nel 1479, visto che in tale data anche il podestà si era trasferito.
Trasferiti il podestà ed il magistrato con i relativi ufficiali il Gucci ritiene si procedesse con grande risoluzione sulla strada dell’accorpamento voluto da Federico II da Montefeltro. Per fare ciò, secondo una tesi ormai consolidata nel corso del Novecento, il Duca si avvalse della mano di Francesco di Giorgio Martini.
Il geniale architetto senese, che negli anni Ottanta del XV secolo avrebbe innalzato in Cagli l’imponente Rocca con il Torrione, era approdato ad Urbino per proseguire i lavori di quella immensa e superba fabbrica rappresentata dal palazzo Ducale. Francesco di Giorgio giunge nella capitale dei Montefeltro dopo la repentina uscita di scena del raffinato architetto dalmata Luciano Laurana avvenuta nel 1472 anno, non a caso, della morte di Leon Battista Alberti che era stato punto di riferimento per lo stesso Duca.
D’altronde anche nella seconda decade del Seicento il duca Francesco Maria II ebbe ad impiegare i propri architetti di corte per nuovi lavori al palazzo Pubblico di Cagli e molto prima, nel 1523, sempre per volontà ducale, sarebbe stato richiesto l’intervento di Girolamo Genga.
Il 17 giugno 1610 il Comune apprendeva come il fattore ducale aveva fatto “intendere che il Serenissimo Padrone ha pensiero di fabricare questo Palazzo”.
Nella riunione del 30 ottobre 1611, si da conto del sopralluogo effettuato alla presenza di “Giulio Pagiolini da Pesaro muratore della fabrica del palazzo di Sua Altezza Serenissima in Cagli”.
Intanto, il fattore ducale comunicava al confaloniere e priori che per ordine “delli Ministri di Sua Altezza Serenissima”, il palazzo doveva essere liberato degli uffici della cancelleria, archivio e addirittura dell’orologio.
E il Gucci a proposito dei lavori del 1611 e della loggia precisa che “Francesco Maria Secondo, Duca sesto d’Urbino, con occasione di fabricar l’appartamento di sopra del medesimo Palazzo, fece levare detti pilastri e colonne che per essere di travertino furono poi nel 1654 donati dal Publico e concessi alla fabrica della nuova Cathedrale di detta Città per farvi il cornigione di quella”. Il motivo della decisione ducale è fornito sempre dal Gucci, in altra parte del suo manoscritto, quando afferma che la loggia fu demolita “stimando [il Duca] cotal loggia essere impeditiva alla vista delle finestre che riguardono la piazza, e pregiuditiale alla bellezza della prospettiva, che in questa parte dimostra l’istesso Palazzo”.
I dati storici fin qui forniti insieme a quelli risultanti dagli scavi (2005-2007) e dall’analisi della struttura architettonica, consentono a questo punto di operare una soddisfacente lettura della trasformazione quattrocentesca del palazzo.
Il paramento murario duecentesco in conci di pietra, prevalentemente “corniola” mescolata al “marmarone di Cagli”, disposti a filari regolari presenta ben leggibile sulla facciata prospicente piazza maggiore l’antico portale centinato i cui stipiti in pietra a filo muratura sono interrotti orizzontalmente dal balcone seicentesco poggiante sui grandi mensoloni a voluta mentre la centina è tagliata dalla base della nicchia conchigliata ospitante la statua in pietra d’Istria della Madonna col Bambino commissionata a Venezia nel 1680. Alla quota dell’antico primo piano del Palazzo sono le due finestre con arco a tutto sesto tamponate insieme alle altre del primo piano che corrono lungo le fiancate. Questi elementi consentono di comprendere come l’accesso duecentesco fosse sopraelevato di un piano rispetto alla quota di calpestio della piazza, e come tale primo piano in antico si trovasse ad un livello inferiore rispetto all’attuale, permettendo così l’esistenza di un secondo piano abitabile, secondo i criteri del tempo, che è testimoniato dalla serie delle grandi finestre ad arco a tutto sesto tamponate presente sui fianchi immediatamente al di sotto dell’odierna linea di gronda. Queste ultime di numero ma soprattutto di dimensione maggiore rispetto a quelle del primo piano, sono presenti tanto sulla facciata principale quanto su ciascuno dei tre lati dell’edificio ed erano tra loro unite dalla raffinata cornice intagliata che ne segnava in modo continuo il piano del davanzale. E’ il caso di rilevare che sui tre lati del palazzo Maggiore le finestre dell’ultimo piano sono quattro per ciascun lato, come quelle più piccole del primo piano leggibili sui lati sinistro e destro, mentre sulla facciata principale alle due del primo piano di molto spostate verso l’esterno, si direbbe che se ne contrappongano quattro del secondo piano disposte a due a due forse per la presenza di una cospicua torre antecedente al torrino dell’orologio.
Una scala monorampante sospesa su di un arcone, ortogonale alla facciata come nello straordinario esempio del palazzo dei Consoli di Gubbio, o una scala ad una rampa parallela alla facciata e culminante in un’ampia balconata sorretta da pilastri riecheggiante in parte il Palazzo dei Priori dell’amica città di Perugia come proposto da Morgana, doveva pur esistere e permettere in antico di salire dall’esterno direttamente al primo piano. Il periodo d’altronde che intercorre tra l’edificazione del palazzo e la trasformazione voluta dal duca Federico, è tale da far scartare l’ipotesi di una struttura lignea provvisoria realizzata in attesa della scala lapidea definitiva.
Lo spostamento dell’antico ingresso rialzato al piano di calpestio della piazza, con la modifica delle quote interne dei piani, va dunque fissato al periodo dei grandi lavori di trasformazione voluti dal duca Federico. D’altra parte i tempi sono ormai maturi per registrare il superamento del concetto tipicamente medioevale con il quale, specie tra Marche e Umbria, si tende a collocare verso l’alto la zona maggiormente finestrata destinata ad ospitare gli spazi ove amministrare i cittadini, in una sorta di parallelismo con i sopraelevati presbiteri delle chiese abbaziali dove si svolgevano riti di notevole complessità simbolica. In quegli spazi si concretizzava l’idea di una sorta di distaccata ampolla d’illuminata saggezza, quasi una luminosa sacrale loggia che andava a posizionarsi al di sopra delle parti che agitavano gli umori della piazza. Il palazzo maggiore del XIII sec. a Cagli non sembra discostarsi da tale impostazione medioevale. La sua parte inferiore, priva di decorativismi e di una rigorosa austerità con finestratura al primo piano di ridotte dimensioni, ricorda la compattezza poderosa delle strutture fortificate mentre nella parte superiore (al di sopra della cornice intagliata aggettante che corre sui quattro lati rimarcata dalla sovrastante fascia a filo muratura di conci regolari di pietra corniola della stessa fine lavorazione di quelli che disegnano le finestre arcuate) l’alleggerimento della massiccia massa muraria avviene attraverso l’articolazione delle grandi finestre centinate che consentivano alla magistratura cittadina la vista, al di sopra dei tetti circonvicini delle private abitazioni, sul lontano orizzonte del territorio del libero Comune. A coronamento di questo luminoso spazio finestrato doveva essere la merlatura (probabilmente alla guelfa come era dato rinvenire sulla porzione di mura urbiche del tratto dell’area del Cassero) poggiante forse su archetti pensili.
Il senese architetto del Duca mantiene in larga parte inalterate le murature esterne del duecentesco palazzo maggiore per concentrare, all’esterno, le maggiori trasformazioni sulla porzione terminale dell’edificio dove scompare il probabile coronamento merlato e sul fronte prospiciente la piazza dove atterra lo scalone che costituiva l’ipotetica loggia medioevale di cui è traccia nei documenti.
All’interno le murature, intonacate su ambo i lati, che sono affiorate molto sotto la quota del pavimento in grandi lastre di arenaria (raro anche se non unico esempio di pavimentazione in Cagli) della sala con volta a padiglione che tra Otto e Novecento è stata declassata a vestibolo o ancor meglio androne del Palazzo ma che tra Cinque e Seicento era la sala dell’adunanze del Consiglio Generale, danno l’esatto segno delle grandi trasformazioni. I riemersi muri perimetrali in questione (della larghezza media di 75 cm) sono costituiti dai due paramenti murari esterni in conci di pietra disposti a filari regolari, qui di elevata lavorazione, ma con all’interno il materiale alluvionale che (a differenza di quanto è dato rilevare di norma negli edifici cittadini) scelto in base alle dimensioni è stato disposto in maniera regolare a strati alternati all’allettamento in calce. La uniformità dei materiali alluvionali e la regolarità dei singoli strati è tale che al momento del primo affioramento si era pensato all’esistenza di un pavimento ad acciottolato un po’ grossolano (ipotesi subito accantonata dalla successiva quanto immediata lettura dei due paramenti murari intonacati su ambo i lati).
Le murature duecentesche ora scoperte danno la chiara lettura di una ben differente partitura degli spazi del pianterreno. Per realizzare la grande sala con volta a padiglione, oggi detta vestibolo, si procede con l’eliminazione di due aule e si modificano le altre sale del pianterreno poiché le murature portanti dei lati maggiori della grande sala non poggiano su quelle duecentesche. Perciò l’architetto per avere lo spazio da destinare a tale sala voltata, e quella identica del piano superiore, non si limita ad unire due stanze del pianoterra ma si allarga sottraendo spazio alle altre laterali. Tutto ciò fa ben comprendere che all’interno il duecentesco palazzo maggiore è stato interamente svuotato di ogni muratura portante, fino sotto la quota del piano di calpestio, per far spazio al nuovo disegno. Ora è dunque chiaro che non ci si limitò ad abbassare l’ingresso rialzato al pianoterra ma si riprogettò l’intero spazio architettonico all’interno del guscio duecentesco che rimane composto dalle murature esterne duecentesche le cui aperture (finestre o accessi) sono state tutte rigorosamente tamponate.
Alla mano di Francesco di Giorgio Martini ritengo si debbano ricondurre le sale voltate del pianterreno del Palazzo la cui linea d’imposta è caratteristicamente segnata dalla stessa volta leggermente aggettante rispetto alla sottostante muratura portante. Qui le grandi finestre architravate in parte conservano, nello spessore della strombatura, sedili su balaustri lapidei i quali ultimi riecheggiano quelli di alcune sale, come la Sala delle Veglie, del primo piano del Palazzo Ducale di Urbino.
Nella grande aula sulla cui linea mediana si pone l’ingresso principale centinato rivolto verso la piazza maggiore è posizionato anche quello minore che prospetta verso la corte interna e che risulta rimarcato da un portale lapideo (pietra delle Cesane) di pregevole fattura nel cui architrave, tra due aquile feltresche, è al centro racchiusa entro una ghirlanda da cui si sciolgono in ampie volute due nastri quattrocenteschi, l’aquila che sorregge lo scudo urbinate. Arme comunale sapientemente inglobata, come è noto, in quella dei Montefeltro.
L’intera sezione centrale dell’antico palazzo maggiore dopo l’intervento quatrrocentesco è occupata dall’ampia sala con volta a padiglione e dall’articolazione dello spazio ricavato, verso il fronte principale. grazie ad un doppio ingresso. Attraversato, infatti, il primo accesso centinato esterno sulla piazza si entra in detto spazio voltato che funge da filtro poiché solo dopo aver attraverso un secondo portale si accede, infine, alla grande aula del pianterreno. Tale spazio, stretto dunque tra il primo portale ed il secondo è, non a caso, intercomunicante con l’aula grazie a due piccoli passaggi laterali (dai quali si accede peraltro anche alle sottostanti sale interrate prevalentemente con volta a botte in mattoni) che si direbbero ad uso principale del corpo di guardia a cui spettava il controllo di quanti accedevano al Palazzo dall’esterno. Il cancello in ferro, che oggi delimita solo il secondo portale (quello più interno), è una soluzione della metà dell’Ottocento ed appartiene a quel periodo in cui l’aula è ormai declassata a mero luogo di passaggio al punto che vi si colloca anche una latrina.
Ma l’aula nel periodo in cui il Magistrato era tornato a ripren
dere possesso del Palazzo è arricchita anche dall’affresco della lunetta. Infatti nell’anno 1563 il Gucci ricorda come la Comunità determinò di fare “ristaurare l’immagini di Sant’Angelo e di S. Ghironzo Protettori della Città nella Sala da basso del suo Palazzo sopra la Porta verso il Cortile, dove per dar maggiore lume alla medesima sala fece anco fabricare le due finestre che hoggi vi si vedono”.
Lo stato di questo affresco doveva essere tale però da indurre il Magistrato nel 1583, come riferisce il Gucci, a determinare “che à capo della sala da basso del Palazzo Publico sopra la porta verso il Cortile si dipingesse l’Immagine della Madre di Dio, e di Sant’Angelo, e di S. Ghironzo suoi Protettori, come fu fatto, per esser quella la sala, dove all’hora solevano congregarsi i Consegli”.
L’affresco in questione più volte oggetto di interventi conservativi nei secoli successivi (il restauro del 1994 ha peraltro evidenziato oltre le ampie grossolane ridipinture ad olio anche uno strato più antico affrescato), è da Morgana attribuito al pittore cagliese Giovanni Dionigi di cui un’opera firmata e datata 1535 conservata nella chiesa di Sant’Agostino di Cantiano, presenta affinità stilistiche. Lo stesso Morgana dal canto suo sostiene che al figlio di Giovanni di nome Bernardino, anch’egli pittore, sarebbe stato assegnato il lavoro di restauro dell’affresco, come dimostrerebbe, sostiene il Morgana, un pagamento fatto a quest’ultimo pittore nell’anno 1583.
Su parte della superficie della volta a padiglione dell’aula, durante i lavori di restauro ancora in corso, sono riemersi due distinti strati di affreschi con vedute di città[i]. Quello più superficiale, che si direbbe posteriore al 1554, rappresenta una veduta della città di Roma. La presenza di Castel Sant’Angelo (di cui è ben identificabile anche la raffigurazione della statua bronzea di San Michele Arcangelo sulla sommità), della colonna traianea e di altri monumenti della città eterna non lasciano dubbi. Lo strato inferiore di affreschi, sul quale è stata ripetuta a carboncino la data 1554 (con il ripetuto nome “Sbratta”) che è da interpretarsi come la data di copertura con la successiva citata immagine di Roma, svela una città disposta con i suoi monumenti principali lungo un’immaginaria linea d’orizzonte. Una rappresentazione urbana in parte idealizzata ed anteriore al 1554 che potrebbe riferirsi proprio alla città al cui Consiglio Generale tale aula, tra Cinque e Seicento, era riservata per le adunanze: Cagli.
I lavori di restauro conclusi nel 2009, hanno consentito una piena lettura anche del Palazzo del Podestà la cui facciata di levante con il doppio ingresso era stata ridotta a mera fiancata dando priorità, a seguito dell’accorpamento, alla facciata prospettante su piazza maggiore. La riapertura del doppio ingresso costituito da due arconi tamponati che immettevano nella sala delle udienze, che qui come altrove fungeva anche da loggia dei mercanti, ha consentito di ricomporre nel 2008 (anche attraverso il recupero di alcuni conci sagomati mescolati nella muratura del tamponamento) la parte superiore delle finestre centinate dell’appartamento podestarile che esternamente erano state architravate. La sala delle udienze a doppia altezza rimane suddivisa in due locali ma la chiusura di detti arconi con superfici vetrate, sulla quota degli antichi portoni lignei, ne consente oggi il recupero della dimensione monumentale ed al contempo costituisce una sorta di grande vetrina del Museo Archeologico di cui sono state raddoppiate le superfici mediante la costruzione di una scala interna ed il posizionamento dell’ascensore. La sala delle udienze prendeva in antico luce attraverso due monofore oggi riaperte grazie allo smontaggio di un solaio interno che ha anche permesso di rileggere buona parte della facciata di ponente di questa struttura che su tale lato risultava totalmente inglobata.
Si è compreso come il duecentesco Palazzo del Podestà, risultava effettivamente libero sui quattro lati. Il ritrovamento dell’autonomo ingresso esterno all’appartamento podestarile alla quota del medesimo sul lato nord ha dimostrato (con la sua recente parziale stamponatura) l’esistenza di una scala esterna ad uso esclusivo del Podestà e ha chiarito la mancanza del più volte cercato collegamento interno tra la sala delle udienze con i locali annessi del pianterreno a doppia altezza ed il sovrastante appartamento.
Sono state inoltre restaurate, nell’ambito dei menzionati lavori, anche le rimanenti cinque celle del carcere podestarile probabilmente seicentesche seppure ridotte di numero nel Novecento ed in parte rimaneggiate essendo state utilizzate fino agli anni dell’immediato secondo dopoguerra.
Dunque il Palazzo Pubblico per volontà del duca Federico da Montefeltro (a parte i lavori eseguiti nel Seicento al piano superiore per il duca Francesco Maria II e quelli di riattamento a seguito del devastante terremoto del 1781) fu all’interno totalmente ridisegnato mentre l’esterno fu parzialmente mantenuto per non alterare la rigorosa quanto anticipatrice pianta urbanistica della città che si ipotizza disegnata da Arnolfo di Cambio.
Ora è certamente più comprensibile anche Vespasiano da Bisticci quando nella Vita di Federico da Montefeltro, Duca di Urbino tra gli “Edifici fatti per l’Illustrissimo Signor Duca” annota la “casa” e la rocca di Cagli.
LA ROCCA E IL TORRIONE DI FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI
I lavori di consolidamento, restauro e scavo attualmente in corso stanno portando all’emersione della Rocca di Francesco di Giorgio Martini che dal XVI secolo era stata a mano a mano in parte interrata ed in parte saccheggiata dei suoi paramenti murari esterni.
Lo scavo archeologico da un lato fuga i dubbi circa la fedeltà dell’innovativo disegno che il geniale architetto senese fa di questo complesso fortificato, e dall’altro porta alla luce rilevanti porzioni della struttura quattrocentesca ritenute perdute
Per la terza città più importante del Ducato, dopo Urbino e Gubbio, il duca Federico da Montefeltro aveva fatto realizzare sulla collina a controllo dell’antica consolare Flaminia e a protezione della città di rifondazione papale, una Rocca romboidale sulla quale si ergeva il mastio a base triangolare dell’altezza di 35 metri.
La Rocca è ancor oggi collegata al Torrione (costruito a cavallo della duecentesca cinta urbica) attraverso un camminamento segreto di 365 gradini che nella dettagliata descrizione Francesco di Giorgi Martini definisce “soccorso coverto”, il cordone ombelicale tra l’imprendibile Rocca e la città la cui suggestiva architettura rimanda ai “bottini” di Siena: l’acquedotto che lo stesso aveva progettato per la sua città d’origine.
La Rocca con il sottostante Torrione era una sorta di “macchina bellica” frutto delle avanzate teorizzazioni di Francesco di Giorgio Martini che per tre secoli fu punto di riferimento per gli architetti militari europei. Nella minuziosa descrizione che l’architetto senese fa della Rocca e Torrione a Cagli costruiti ex novo, senza dunque obbligo di riattare alcuna preesistenza, sembra trasparire un certo compiacimento.
Ma tale costruzione, del fecondo periodo di transizione marcato da una vivace sperimentazione, venne conquistata da Cesare Borgia detto il Valentino (1475-1507) con l’inganno nel giugno del 1502 durante la prima invasione del Ducato. Liberatosi dall’abile e temuto conquistatore, che godeva dell’alta protezione paterna di Papa Alessandro VI, prima di subire la seconda invasione il duca Guidubaldo diede ordine verso l’ottobre del 1502 di smantellare le rocche più munite del suo Stato. Tra queste è certo anche quella di Cagli, visto che un decreto ducale del 1511 proibisce a chiunque di “cavar” pietra dalla Rocca. La decisione, che ottenne il plauso di Macchiavelli, privò Cagli della sua Rocca sulla quale nel 1565 si decide di erigere il Convento dei Padri Cappuccini. Nel disegno fatto nel 1626 dal Mingucci la Rocca appare ancora come la possente montatura sulla quale è posto a mo’ di gioiello il piccolo Convento.
Nel corso del tempo, ma probabilmente tra Otto e Novecento, per comodo dei frati si avviano varie modifiche attorno al Convento con presumibili consistenti rimodellamenti delle quote del terreno per ottenere spazio dinanzi alla chiesa e orti pensili intorno al convento. La Rocca scompare sotto diversi metri di terra mentre il convento appare sempre più come un organismo a se stante e non più parte inscindibile della fortificazione come gli scavi mettono oggi di nuovo in rilievo.
Occorre sottolineare che gli importanti lavori sono stati avviati nel 2013 sulla base del finanziamento statale ad hoc assegnato dal Governo con decreto a firma del Sottosegretario Gianni Letta, grazie ad una perfetta sinergia tra l’Assessorato Beni e Attività Culturali del Comune di Cagli la Direzione Regionale del MiBAC e la Soprintendenza BAP delle Marche.
Il recupero del ribasso d’asta è stato in larga parte impiegato a vantaggio della sistemazione della struttura lignea di contenimento del fossato del Torrione a rischio di collasso per errate scelte tecniche iniziali poiché nel 1989 non era stato posto lo strato isolante verso il terrapieno a difesa del tavolato.
I lavori alla Rocca sono stati inizialmente focalizzati sul consolidamento poiché il banco di roccia, detta ” bisciaro”, sul quale è stata costruita presentava, in più punti, arretramenti di circa 3 metri di profondità il che comportava un serio rischio di ribaltamento della struttura sovrastante. Dopo aver eseguito il necessario consolidamento delle murature a rischio di crollo, è stato iniziato lo scavo che ha portato sul lato di ponente all’emersione di ampi tratti di muratura quattrocentesca perfettamente integra mentre altri scavi sul fronte di levante fanno intuire la presenza di uno dei due grandi torrioni che fiancheggiavano il mastio a base triangolare alto 35 metri. In verità la “Mappa della città di Cagli” del 1858 dava per esistente un ampio tratto della cortina di ponente che forma la piazza d’arme triangolare. Non si poteva, però, immaginare che i frati avessero sotterrato ampie porzioni di Rocca che così si sono salvate giungendo fino al tempo presente.
La presenza di ampi tratti di cortina muraria protetta da terriccio di riporto, e di porzioni di cortina che non furono all’epoca smontati come nei punti di intersezione dei torrioni con il puntone, hanno favorito la scelta di preservare la Rocca mediante foderatura della sola parte scarpata della grande massa muraria con un paramento in pietra arretrato rispetto all’originale. Una scelta meditata, ampiamente documentata, basata su dati oggettivi e soprattutto condivisa con studiosi e dirigenti del MiBAC tra i quali in particolare il professore Mario Lolli Ghetti.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Alberto Mazzacchera, “La Rocca e il Palazzo Pubblico del Duca Federico da Montefeltro. Nuovi documenti e riflessioni sulle fabbriche di Francesco di Giorgio a Cagli”, in “Contributi e ricerche su Francesco di Giorgio nell’Italia Centrale” a cura di Francesco Colocci, Urbania, Comune di Urbino, 2006, pp. 99-134.
Nel corso della visita a Cagli l’Associazione ha visitato l’Abbazia di Sitria; Marco Belogi ne ha fatto una breve presentazione ricapitolando la storia del Monachesimo nelle Marche
APPROFONDIMENTI
La Badia di Santa Maria di Sitria e i monti del Catriadi Marco Belogi