Tradizioni, miti, leggende marchigiane

di Marco Belogi

Nel linguaggio comune molto spesso tradizione, mito e leggenda vengono usati impropriamente .

Tradizione, dal latino traditio, è la trasmissione o meglio la consegna, per lo più per via orale da generazione a generazione, di notizie, memorie, consuetudini e molti altri elementi che sono alle radici della cultura di un popolo.

Mito, dal greco mythos racconto, è la narrazione fantastica di tempi e personaggi favolosi ed eroici. Generato da mentalità arcaica, spesso il mito è dominato dal pensiero magico: le cose, gli animali, i fenomeni della natura vi appaiono animati e umanizzati con tutte le metamorfosi possibili. In esso il mondo degli dei, degli eroi e degli uomini costituisce un tutto, in cui  sacro e  profano agiscono in assoluta continuità. I temi del mito sono molto vari: vicende divine, creazione e fine del mondo, origine di questa o di quella realtà naturale o fisiologica (come il vento o la morte). Il mito si distingue dalla favola non per diversità di contenuti, ma per un diverso atteggiamento della società nei suoi confronti: è favola quando il racconto è presentato ed accolto come opera di fantasia, è mito quando assume un carattere sacrale .

Leggenda, dal latino res legenda cose degne di essere lette, nasce come racconto della vita di un santo dove si mescolano motivi reali con elementi fantastici e soprannaturali. In letteratura il nome leggenda è poi entrato in uso per designare ogni narrazione che, pur partendo da fatti e luoghi reali, viene trattata con liberi adattamenti che ne accentuano i caratteri fantastici. La leggenda è dunque diversa dalla fiaba per il nucleo di verità che essa contiene, spesso non distinguibile dal mito, per la difficoltà di appurare la verità storica presente nel nucleo da cui ha preso vita.

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Monte Vettore e la vallata di Castelluccio di Norcia

Monte Vettore e la vallata di Castelluccio di Norcia

La morfologia del territorio marchigiano, nella sua spettacolare varietà, con il mare che ne modella continuamente la costa, a tratti dolce e lineare, a tratti anche ruvida e scogliosa e con quei gioghi appenninici che lo incoronano e lo rendono a tratti inaccessibile, dove si aprono gole ed anfratti di particolare suggestione, gradua le tradizioni, i miti e le leggende di questa antica terra. Sono i frutti di un intenso rapporto che qui si è  sviluppato tra uomo e natura nella sua lunga storia, che si perde nei millenni, già nota fin dal tempo dei Piceni e dei Galli Senoni.

Le tradizioni, infatti, come tutte le usanze e le leggende marchigiane , riportano proprio a questo  stretto rapporto con la natura.

Sono nate così e ancora continuano le tante feste del mare: quella di settembre ad Ancona, o quelle d’estate a Pesaro, a Fano, a Marotta, a Senigallia e di tanti altri centri costieri fino a giungere Porto San Giorgio.

Proprio in quest’ambito marino è nata  la famosa leggenda di Serenella: è una delicata leggenda marinara, legata al suggestivo paesaggio della rada di Portonovo. “Quando  alla sera-così la narra il raffinato scrittore Manlio Marinelli_ le cicale cessano il loro canto, isolata una di esse continua a stridere. Allora i pastori, se l’odono, dicevano con nella voce la loro superstiziosa ingenuità: ”Senti? E’ l’ultimo pianto di Serenella. Racconta infatti una leggenda: “Vissero un tempo qui, in questa spiaggia, due giovinetti amanti, belli come due antichi dei. La solitudine e il silenzio nutrivano la loro passione, la rendevano più tenace e più vigorosa, la sublimavano d’innanzi  alle meraviglie delle cose pure. E la loro esistenza era come un sorriso della prima infanzia: fluiva al ritmo di un solo desiderio, di un solo pensiero, di un unico sogno. Ma venne il giorno del martirio. Era agosto, e intorno c’erano le vampe del sole, e un nugolo di cicale che non si stancavano mai di cantare, che riempivano con i loro cori le radure e i cieli: lui si chiamava Floriano e fu ucciso, lei si chiamava Serenella ed impazzì”. ”Gli hanno rotto il cuore così, diceva lei  sorridendo. E dentro non c’era il sangue, ma le cicale. E le cicale sono venute fuori e sono poi volate via. Sono venute qui ed ora cantano e cantano d’amore. E lei stava lì dall’alba al tramonto a sentirle cantare, serena, ridente, tranquilla: quasi non sembrava pazza. Ma al tramonto s’accendeva la sua follia. Come il sole era caduto, incominciava a correre per la selva, bianca nelle vesti, con i capelli al vento dietro lo stridio dell’ultima cicala. Chissà cosa risentiva in esso, quale angoscia si rinnovava nella sua povera anima? E correva, ripetendo una sua cantilena lamentosa, bagnata di lacrime, disperata come il singhiozzo di un moribondo: andava finché tutto si faceva silenzio, e la notte avvolgeva ogni cosa nel mistero, e le mancavano a poco a poco le forze. Visse così fino all’autunno, poi, con i primi freddi, scomparve. Senti? – dicevano i pastori, ascoltando il frinire dell’ultima cicala, perduta nel cupo della boscaglia, chissà dove, ora vicina ora lontana – senti? E’ il pianto di Serenella.  

Più fiabesca è la discesa delle Fate che si tiene a Pretare nella suggestiva cornice dei Sibillini dove sono fiorite molte leggende, la più famosa delle quali è quella della Sibilla e di Guerrino detto il Meschino. Questi, secondo la tradizione,  Guerrino raggiunse la maga Alcina che abitava in una grotta del monte della Sibilla. Dopo aver trascorso quasi un anno tra le lusinghe della maga, riuscì a fuggire raggiungendo Roma dove chiese  perdono al papa per il suo gesto temerario. In versione tedesca è la leggenda del Taunnhauser, ripresa  poi da Wagner.

La costa del Conero, luogo da sempre ritenuto dimora di spiriti maligni e di folletti, accoglie un’altra leggenda, ispirata alla spelonca degli schiavi, dove una principessa sarebbe stata rinchiusa dai corsari e li condannata a morire. Il ruscello che esce dalla roccia non sarebbe altro che il pianto della fanciulla.

Offagna: torneo a cavallo

Offagna: torneo a cavallo

Poco lontano dal convento del beato Sante si eleva il monte della Mattera, il più alto di quella zona, dove, secondo antiche leggende, si troverebbe la fossa del Diavolo. Nelle lunghe notti invernali da quel luogo scaturiscono terrificanti rumori ed urla disperate .

Né vanno dimenticate le numerose feste che ci rimandano alla storia medioevale: c’è il Palio di Offagna, dei Castelli a San Severino con la pittoresca corsa delle torri, di Fermignano con il palio della rana, dell’oca a Cagli  per terminare con la caccia al cinghiale di Mondavio. C’è poi il Palio di San Giovanni a Fabriano e quello di Treia con la Disfida del Bracciale, giuoco reso famoso da una composizione del Leopardi.

Ad Ascoli Piceno, tra il 14 e  il 15 agosto ,ogni anno si rinnova il torneo  cavalleresco marchigiano più noto, quello della Quintana, torneo legato ad una sfilata in costume seguita dall’assalto ”al moro”. Si tratta di un bersaglio ligneo che gira su se stesso e  che può colpire il cavaliere se questi non è svelto ad evitarlo.

Carnevale di Fano: i carri illuminati

Carnevale di Fano: i carri illuminati

C’è poi il carnevale di Fano, già documentato fin dal 1347, con la sfilata di carri allegorici che mostrano con vivacità espressiva e caricaturale i personaggi  più rappresentativi dell’anno.

Tra le tante feste religiose del passato alcune continuano ad essere  ancora molto attese nell’animo popolare, particolarmente in quella parte di popolazione  di origine contadina  .

Tra queste c’è la festa della Venuta che si celebra la notte del 9 dicembre, data in cui, secondo la tradizione la casetta di Nazareth prese il volo dalla Palestina e si posò sui colli di Loreto, appunto nella lontana notte del  1294.

Per ricordare l’evento in tutte le campagne marchigiane si accendono , a sera inoltrata, grandi falò  per illuminare  la via  percorsa dalla preziosa reliquia che tanta fama e lustro ha donato a questa terra.

Ci sono poi i riti della Passione, che culminano nel venerdì santo e  richiamano ancora molta folla in tanti centri marchigiani . Impossibile enumerarli tutti. Tra di essi la più famosa e spettacolare è la Turba di Cantiano ,  risalente al 1260 .

Altrettanto si può dire per le  innumerevoli devozioni mariane  come l’antica processione notturna della Madonna degli Alberici, che si snoda dalle Montagnole  di Ancona fino a Montemarciano o quella sul mare dei pescatori anconetani che trasportano “il quadro miracoloso” della Regina di Tutti i Santi.

L’ antica e tanto radicata devozione mariana nella popolazione marchigiana è testimoniata dai più svariati toponimi che affiancano il nome della Madonna. Alcuni  di essi sono molto significativi dell’ambito in cui sono nati: dell’Acquabona a Poggio, dell’Acquanera  a Frontone,  del Vento  a Cagli, del Sole  a Ostra, del Castagneto a Fratterosa, di Scotaneto a Montegiano, dei Piattelletti a Fano, del Mercatale a San Giorgio di Pesaro.   

E che dire delle leggende che contornano i Santi patroni di città marchigiane come Ciriaco di Ancona, Floriano di Iesi, Paterniano di Fano, Giuliano di Macerata o Emidio di Ascoli? Leggende che si ripetono, con alcune varianti, in molte città della regione. Come quella di San Venanzio di Camerino, decapitato, il cui martirio richiama quello di San Paolo.

Altra leggenda è quella del Crocefisso di Sirolo, anch’esso, come la casa lauretana, venuto dall’Oriente. Nella sua storia si trova coinvolto persino Carlo Magno. Tra la gente vige il detto” chi va a Loreto e non va a Sirolo, vede la madre e non vede lo fiolo”.

Più corografiche e pittoresche rimangono  le Infiorate  che tappezzano le vie di Castelraimondo e di Servigliano per il passaggio del Corpus Domini. Sono testimonianza di una fede antica e radicata quando i rappresentanti dei vari castelli marchigiani andavano a giurare fedeltà ai loro Signori, portando in dono un grande cero per illuminare notte e giorno il Corpo di Cristo. Era il suggello della loro fedeltà. Una mito, interessante e suggestivo, ci riporta a credenze arcaiche.

Il picchio verde

Il picchio verde

Riguarda il picchio, animale da  sempre ritenuto caro a Marte. Secondo la tradizione fu il picchio a nutrire Romolo e Remo, volando giornalmente nella caverna dove si trovavano i due gemelli. Protettore della specie umana per gli Indiani e portatore del fuoco  per i Negrito, il picchio ,simbolo di sole  e di rinascita, era considerato anche l’uccello sacro ai viandanti, perché insegnava loro la via. Sull’origine dei Piceni ci sono  varie tesi discordanti. La più antica si rifà ad una antichissima leggenda che vede il dio italico Pico, figlio di Saturno, innamorarsi della bellissima dea Pomona. Il giovane, travestito da vecchia, riesce ad entrare nel palazzo della dea, rivelandosi a lei sotto il suo vero aspetto. Scoppia l’amore tra i  due che subito si sposano. In seguito entra in scena la perfida maga Circe, che si invaghisce del giovane. La maga però viene respinta. Umiliata da questo rifiuto riesce a trasformare Pico in picchio. L’uccello, alzatosi in volo, percorre  monti e campagne per intere giornate, fino ad imbattersi in una schiera di giovani Sabini inviati dai loro padri a conquistare nuove terre, secondo l’antico rituale della “primavera Italica”. Il picchio, avvicinandosi lentamente ai guerrieri, si posa sopra le loro insegne. I giovani lo ritengono un messaggero degli dei e quindi animale sacro.

Logo Regione Marche

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Dal nome del volatile, quei  giovani Sabini presero il nome di Piceni. L’eco di queste storie lontane non si è ancora spento. A Monterubbiano, infatti, durante la Pentecoste si celebra ancora la festa chiamata ”Sciò della pica”, sulla scia di questa antica tradizione. Su un ciliegio decorato con frutti e fiori, appositamente preparato, viene legata una pica che viene fatta svolazzare tra i rami, incalzata dagli incitamenti degli astanti. Per questo mito il picchio, uccello da sempre considerato profetico, è stato assunto come simbolo della Regione Marche.

 

 

 

 

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