di Peris Persi
Terra con i tratti essenziali d’Italia. Le Marche costituiscono uno spazio regionale che non finisce mai di suscitare stupori: per i suoi paesaggi diversi e suggestivi, per la sua gente operosa e ospitale, per la spiritualità profonda dei luoghi, per il suo modello produttivo già invidiato e imitato, per il valore e lo splendore del patrimonio artistico-culturale e non meno per quello naturalistico, per la concretezza del lavoro umano da cui è scaturita una inedita civiltà urbana e rurale.
Terra di antico popolamento, modellata da generazioni di contadini, arricchita di architetture e di opere insigni, area di collegamento e di transizione tra domini culturali differenti, contesa e internamente divisa a causa della sua posizione periferica rispetto ai grandi centri di potere, travagliata da fatti bellici antichi e recenti, le Marche appaiono come una regione dinamica che desta curiosità e interesse per aver conciliato passato e presente senza cadere in stridenti e temibili contraddizioni. Da un lato, la regione costituisce un vivido documento storico di quanto accaduto in tempi lontani, dal momento che inerzia e conservazione vi hanno calato e fatto sopravvivere più a lungo le orme del passato; dall’altro, essa diviene oggetto, a partire dal periodo postbellico, di processi economici e sociali del tutto peculiari, quasi che secoli di anonimo lavoro nei campi avessero fatto germinare e sviluppare una sorta di genialità e imprenditorialità marchigiane a lungo represse e poi esplose in un ampio ventaglio di attività extragricole.
Oggi le si riconosce una centralità non solo per la posizione mediana occupata sullo “stivale” e neppure solamente per rispecchiare le principali peculiarità del paese. Il che è vero: mare, monti, colline, piane vallive, …. E’ parere diffuso che la sua gente possieda una centralità culturale, temperamentale e identitaria tra Settentrione e Meridione. Ma, al di là di ogni altra considerazione, più o meno soggettiva, risulta pienamente giustificata e ancora profondamente veritiera la definizione delle Marche come “l’Italia in una regione” e non solo quale sintesi di beni e connotazioni presenti altrove, bensì quale essenza del paese, qui tradotta e originalmente rielaborata in modi e tempi diversificati, che può essere agevolmente riscoperta da un occhio attento e da un intelletto acuto, guidato da curiosità e da sensibilità interiore.
Terra di magnifica pluralità. Chi percorre la penisola diretto a sud, dopo aver superato la Padania, si sorprende di inoltrarsi in una regione dove la collina si addossa alla costa inducendo visioni paesistiche prodotte dalla lotta umana contro le pendenze dei versanti, contro la selva che, folta, ricopriva gran parte del territorio, contro le acque ruscellanti e il potenziale dissesto idrologico attivato dal dissodamento su suoli arenacei e argillosi. Chi, al contrario, risale verso settentrione, lasciando alle spalle il più accidentato Abruzzo, si sorprende di inoltrarsi in un dominio fatto di colline e vallate dagli ameni paesaggi agricoli, che si estendono a perdita d’occhio, al di là della conurbazione nastriforme adriatica, quali quinte di un teatro sigillato dai “monti azzurri”. Sullo sfondo lontano si eleva fino ai 2500 metri una montagna pittoresca che nel nome evoca miti e leggende legati alla Sibilla, sull’Adriatico una costa solare e sinuosa e con arenili famosi si snoda pigra e invitante, fiumi con gole profonde e suggestive si allargano talora in articolati specchi d’acqua per uso irriguo e idroelettrico, mentre alle coperture di vetuste faggete e di più recenti pinete fanno seguito campi assolati e ancora accuratamente coltivati, dove a vigneti generosi seguono altrettanto generosi oliveti quasi a testimoniare una mitezza climatica che si stempera solo verso l’interno; il tutto costellato da centri collinari e montani, veri scrigni d’arte e di antichi rapporti sociali, che continuano ad affermare un dinamico e dialettico rapporto città-campagna. Da un lato cittadine industriose della costa e dei fondovalle fanno convivere moderne espressioni produttive con attività terziarie ed educative, dall’altro strutture insediative ancora diffuse sul territorio sottolineano un sostanziale equilibrio regionale a dispetto della indiscussa tendenza aggregatrice del litorale e dei poli industriali dell’entroterra. Infine edifici civili e religiosi dispersi nelle campagne e nelle aree montane testimoniano una radicata e profonda spiritualità del marchigiano legato alla sua terra da un inesauribile patrimonio di tradizioni, miti e leggende.
Ne deriva un mosaico sociale dove la frammentarietà delle autonomie locali, sostenute da endemismi sociali e da peculiarità geomorfologico-biogeografiche, si perde di fronte al disegno regionale unitario, teso ad intensificare interdipendenze di ruoli e funzioni, nonché ad integrare rapporti quali si determinano in una città-regione favorita da un moderato carico demografico (ca.1,5 milioni ab.) su una superficie di 9.694 kmq e da un esteso sviluppo e elevata qualità delle componenti biogeografiche. L’Ascolano, il Fermano, il Camertino, il Maceratese, il Fabrianese, il Cagliese, il Fanese, il Pesarese, l’Urbinate e il Montefeltro corrispondono pertanto a domini e identità locali che, a giusta ragione, vengono sostenuti quali ultime sopravvivenze di marchesati, governatorati e signorie illustri, presidiati (Montalto), vicariati (Mondavio) e territori direttamente soggetti alla santa sede (Fano); ma tutti si riconoscono e operano in sostanziale sintonia, nel quadro di un’area medio-adriatica impegnata a svolgere un ruolo determinante in ambito locale e nazionale. Dunque oggi non più cantoni isolati e conflittuali e neppure subregioni separate e discordi, ma componenti locali, preziose e coese, a indicare la molteplicità e il pluralismo politico-culturale della regione.
Terra di lavoro. Pur nelle moderne connotazioni insediative e produttive, le Marche possono dirsi il diretto risultato della mezzadria. Nella storia regionale non c’è stato evento più grandioso e rivoluzionario che abbia cambiato tanto profondamente le strutture sociali e quelle ambientali: da questo possono farsi derivare anche il cospicuo inurbamento seguito all’esodo rurale e montano, il processo di trasformazioni industriali del dopoguerra l’affermazione delle attività terziarie e quaternarie e infine il dinamismo politico e il dibattito culturale più recente.
Diffusasi nel Quattrocento, dopo la lunga parentesi di abbandono delle campagne, la mezzadria si afferma insieme alla febbrile corsa all’agricoltura. La selva arretra di fronte all’avanzata dei deforestatori e dissodatori, le proprietà e i coltivi si estendono, l’appoderamento nelle campagne si diffonde mentre un nuovo patto colonico stabilisce salomonicamente la divisione in parti uguali degli investimenti e delle rese tra proprietario terriero e famiglia colonica: il primo mette a disposizione le sue terre e la seconda fornisce il lavoro e l’esperienza acquisita. Ne nasce un sodalizio originalmente felice che penetra le valli, risale le pendici collinari e, mentre ingentilisce il paesaggio, accelera l’erosione dei versanti e l’alluvionamento: ne beneficia soprattutto la cimosa litoranea, poi destinata ad ospitare gli orti suburbani, che si allarga di quasi un chilometro. Cambia drasticamente il ruolo della città murata che si circonda di borghi e mercatali, mentre i casolari si diffondono nelle campagne e, con questi, le chiese, i conventi e le edicole religiose. Si rigenera la vita economica alimentata dall’agricoltura e dal commercio delle derrate alimentari: di tanto nuovo benessere fanno fede le costruzioni patrizie, le mirabili architetture religiose, le opere artistiche custodite nelle chiese, le sedi di confraternite, dei monti di pietà, dei primi ospedali e, poi, delle accademie, quasi a sottolineare una più intensa vita partecipativa e culturale, un fervore sociale, economico e persino religioso: in quest’epoca prende sviluppo la basilica- fortezza di Loreto, impegnata nella custodia di una delle più venerate reliquie della cristianità.
Il sistema mezzadrile, segnato dalla crisi crescente tra Ottocento e Novecento, alimenta una potente emigrazione transoceanica e registra la sua fine dopo la seconda Guerra mondiale, quando nel 1964, per legge, ne viene decretata la scomparsa. Da un lato ciò avvia lo sviluppo della conduzione diretta, con numerosi coloni finalmente proprietari della terra coltivata dai loro padri, dall’altro accelera la fuga dalle campagne, porta alla nascita del part-time e, nelle aree industriali interne (Fabrianese) del metal-mezzadro, mentre la definitiva scomparsa della policoltura e dell’allevamento bovino coincide con il crescente successo della meccanizzazione. Il paesaggio cambia, muta la cultura contadina, si trasforma il rapporto città-campagna, ma sopravvivono i valori di fondo e i segni di base di un’agricoltura plurisecolare, seppure non più intensiva, non più parcellare e comunque ancora leggibile per le tracce indelebili di tutto un mondo rurale affinatosi nel tempo e nella sofferta esperienza di lavoro e di vita: le maglie delle proprietà si ampliano, ma si conservano le geometrie irregolari, spezzate e un po’ anarchiche, sottolineate dai colori delle colture e dal numero incredibile di tonalità del verde.
Terra di nuova paleografia e operosità. Cento e cento sono le città, tutte minute e disperse sul territorio, tutte da sempre con gli attributi e le pretese urbane, tutte con i simboli del potere laico (il palazzo municipale e la torre civica), di quello religioso (la cattedrale, la pieve, la chiesa parrocchiale) e di quello borghese (la loggia dei mercanti, spesso sul fianco di una chiesa francescana). I crinali vallivi ostentano ancora tali insediamenti murati, muniti di porte, rocche e torrioni, al pari dell’insediamento vallivo o litoraneo che ha cercato punti strategici: una confluenza fluviale (Ascoli, tra Tronto e Castellano; Cagli, tra Bosso e Burano), l’alta sponda di un meandro (Urbania, già Castel Durante), una strozzatura idrografica (S. Angelo in Vado), un terrazzo marino (Fano, Pesaro).
E’ certamente mutata l’armatura urbana per il diverso peso demografico assunto dai fondovalle e dalla costa rispetto all’insediamento collinare. Mutata è anche la viabilità che ha potenziato l’asse litoraneo rispetto a quello trasversale. Nonostante ciò non si avvertono nelle Marche i forti squilibri generatisi altrove: i centri maggiori si discostano di poco dai 100.000 abitanti (Pesaro e Ancona), mentre una decina sono di media entità; tutto il resto è formato da una maglia di piccoli centri che, a dispetto della dimensione, rivelano una spiccata vitalità politico-culturale. Le cinque maggiori città, sedi universitarie (Ancona, Ascoli, Camerino, Macerata, Urbino) alimentano tale dinamismo attivando corsi anche in sedi distaccate e rispondendo così ad avvertite istanze territoriali.
L’industria stessa ha risalito le valli e si è dispersa in un alto numero di piccole zone attrezzate, volute da numerosi comuni, in grado di ridurre il pendolarismo e di attivare altre iniziative locali. Tra le realtà maggiori il polo di sviluppo di Fabriano, già sede di un’antica e importante cartiera, e delle aree contermini. Considerata una capitale dell’elettrodomestico e del termosanitario, si affianca ad altri distretti industriali, quali quello del mobile (Pesarese), della calzatura e pelletteria (Civitanovese-Fermano), della grande cantieristica (Ancona) e di quella da diporto (Fano). Ma mobilifici, calzaturifici si trovano anche altrove, accanto ad imprese per la produzione di apparecchi elettrici ed elettronici, gomma e plastica, tessile e abbigliamento, carta e stampa, arredamento, ecc. Il che rappresenta un’ulteriore conferma di un modello di sviluppo particolarmente equilibrato e articolato su unità medio-piccole che interessano tutta la regione. Perciò nelle Marche, dopo un primo momento di inevitabile scollamento, il tessuto economico e sociale è rimasto sostanzialmente solidale e privo delle profonde incrinature conosciute altrove.
Tra i fattori di tale cementazione sociale va annoverato, oltre alla cultura regionale, anche l’artigianato che, mai completamente scomparso, sta riprendendo nuova vitalità con il recupero di antichi e preziosi mestieri: tra i tanti, l’attività di restauro del mobile antico a Pollenza e dell’opera d’arte (soprattutto libraria e pittorica) ad Urbino, sede della Galleria delle Marche sontuosamente ospitata nel Palazzo del Duca Federico. Lo stesso turismo che riguarda soprattutto la costa, ha contribuito ad assicurare uno sviluppo ragionevole e compatibile con le tradizioni e risorse locali, senza cadere nell’eccesso di presenze e nella congestione di iniziative ludiche del vicino litorale romagnolo: anche in questo caso si è in presenza di impatto moderato e rispettoso, che si lega al turismo culturale, all’agriturismo e alla valorizzazione delle tradizioni eno-gastronomiche dell’entroterra.
Terra d’arte e poesia. Ogni spazio territoriale è distinto da segni materiali e simboli, da testimonianze concrete e significati lontani di cui purtroppo si è perso il senso originale. A questa ricchezza di elementi interpretativi, alcuni concreti e altri, più numerosi, del tutto immateriali, si aggiungono le intuizioni e interpretazioni del territorio e delle sue espressioni paesaggistiche da parte di spiriti eletti che le hanno colte con le vibrazioni dell’anima e le hanno sublimamente espresse per trasmetterle ad altri. Ciò sembra particolarmente vero nelle Marche, sicché questa terra si configura come un parco dell’arte e dell’architettura, un parco dei paesaggi umani, un parco della poesia e della narrativa. Parlare per le Marche di museo diffuso, fornendo al termine museo il significato più ricco e nobile di spazio vissuto e fruito, denso di spiritualità, è pertanto particolarmente appropriato perché ogni sito si rivela impastato di umanità, lavoro, ingegno e spiritualità di questa gente, ogni sito legato all’altro da strette relazioni, antiche e recenti.
I centri storici, ancora con i mirabili “incasati”, sono oltre 300 e intorno ad essi si estendono pregevoli costruzioni: ville signorili dove la voluptas si lega all’utilitas, case coloniche dove le risorse ambientali si coniugano con le molteplici funzioni rurali, abbazie superbe dove l’austera monumentalità (Santa Croce di Fonte Avellana) coincide talora con precedenti sedi pagane (Santa Maria Assunta di Rambona), monasteri e romitori antichissimi (S. Eustachio di Domora, San Vittore delle Chiuse) attestano una lenta e ampia penetrazione del monachesimo benedettino prima e, poi, farfense e cistercense (Chiaravalle di Fiastra), torri e fortificazioni (come quelle dell’Intagliata, il sistema difensivo voluto dai Varano), castelli e residenze militari (Mondavio, …), antichi percorsi stradali, ponti, sostruzioni e gallerie (quelle del Furlo sulla Flaminia), tutta la sistemazione idraulica benedettina (Fiastra e Chienti), quella agraria dei mezzadri che hanno aggraziato le pendenze dei dossi collinari e bonificato i tratti costieri (Fermano). Estese aree archeologiche impreziosiscono il territorio da Sassoferrato (Sentinum) ad Urbisaglia (Urbs Salvia), Villa Potenza, Falerone e Fossombrone, mentre nuovi scavi continuano a restituire dimore e monumenti insigni (come a Suasa, nel territorio di Castelleone) e danno conferma dell’intensa centuriazione compiuta dai romani sulle principali vallate. Sedi artistiche, ricchi musei, pinacoteche pregevoli e teatri, già magnificamente affrescati ed oggi restituiti agli originali splendori, con la loro omogenea presenza su tutto il territorio regionale, fanno delle Marche un unico e grandioso museo frutto di artisti locali (da Gentile da Fabriano ai fratelli Salimbeni di San Severino, a Bramante e Raffaello) e di mecenati (ad Urbino i Montefeltro e i Della Rovere, a Fabriano i Chiavelli, a Camerino i Varano) che seppero attorniarsi di nomi illustri in tutte le espressioni dell’arte, dell’architettura e della poesia.
Ma i monumenti individuali (ad esempio i Bronzi dorati di Pergola o la porta d’Augusto di Fano) e collettivi (centri storici, il sistema di grotte carsiche di Frasassi, parchi e riserve naturali) si incardinano in uno scenario, opera di generazioni di ignoti contadini, intriso di suggestioni e ispirazioni di poeti e scrittori. Così le Marche sono anche terra di poesia: da Cecco d’Ascoli a colui che meglio ha espresso valori universali, il recanatese Giacomo Leopardi, senza ignorare, tra quelli scomparsi da poco tempo, Fabio Tombari e Paolo Volponi che così efficacemente hanno colto lo spirito dell’area fanese, del Montefeltro e dell’Urbinate.
Dunque un modo nuovo di conoscere la terra marchigiana e di percorrerne le contrade è quello di seguire itinerari guidati dai versi e dalle pagine lasciate da questi uomini d’eccezione, maestri anche di conoscenza territoriale e del genius loci che anima i luoghi rendendoli suggestivi e irripetibili perché custodi di beni culturali e ambientali, nonché di simboli impressi dalle generazioni che ci hanno preceduto: un retaggio unico che nessun processo di globalizzazione potrà cancellare.
Terra dell’armonia. Negare nelle Marche contrasti, travagli sociali, difficoltà ambientali non sarebbe certo corretto. E neppure le problematicità produttive ed occupazionali di questi anni. Tuttavia qui la realtà territoriale, generalmente scossa dai dinamismi e sussulti, appare assai meno dilaniata e conflittuale, meno contraddittoria e contrapposta; ciò è confermato da un moderato impatto industriale, da una rete urbana priva di grandi concentrazioni, da un’agricoltura meno anonima, da una cospicua presenza di aree verdi, da un patrimonio culturale straordinario e onnipresente, da una qualità della vita eccellente e ambita.
Quindi si tratta di un insieme di condizioni rare perché l’indiscusso sviluppo economico non ha incrinato profondamente le strutture insediative, produttive e naturalistiche.
Riprendendo in mano gli Idilli leopardiani e non senza indubbia emozione, riscopriamo in essi quadri di vita ormai lontani, ma non totalmente scomparsi dalla memoria e dalla realtà attuale. Il maggio odoroso, “le vie dorate e gli orti” sono ancora presenze fruibili, la “primavera d’intorno” anche oggi “brilla nell’aria e per li campi esulta, si che mirarla intenerisce il core”, “il mar da lungi e quinci il monte” formano le eterne costanti di un paesaggio magnifico e rassicurante. Ma, soprattutto, ovunque “erra l’armonia per questa valle”, un’armonia fatta di confronto e di ragionevole competizione, governata da antiche convergenze e da condivisioni recenti, sorretta da compatibilità ambientali e solidarietà sociali.
Così le Marche continuano ad essere un quaderno aperto scritto con il faticoso lavoro, costruito con genialità e vissuto con la poesia dalla sua gente che, come Carlo Bo sosteneva, “ha vinto lentamente la sua battaglia e ancor oggi la combatte lentamente, soccorsa da una forma di certezza che per gli altri è invece soltanto speranza”: è una affermazione bella e appropriata che suggella questo testo e stigmatizza una regione che, prima di ogni altra cosa, vuole essere terra dell’armonia.