Spazialità e soggettività nella scrittura di Dolores Prato

di Alferdo Luzi

Le Marche ( toponimo che trae la sua origine dall’etimologia di Marken = terra di confine ), sono una regione che, sul piano della dinamica ambiente-personaggio, può considerarsi una sorta di patria della memoria.

Condannato troppo spesso alla diaspora, chi nasce e vive in questa regione porta con sé un mito nostalgico della propria terra, un’immagine amata, carezzata nel ricordo, ma anche la traccia dell’ultimo atto di amarezza, della delusione per una regione di campagna, bellissima, ravvolta in un paesaggio di boschi, di stoppie, di spiagge luminose,di mercati di paese dove l’odore inebriante del vino cotto si mesce (o meglio si mesceva) al sapore acre del mare portato da lontano dal vento dell’est, ma abbandonata, chiusa tra le sue mura ad ascoltare le proprie voci, a distillare da decenni e da secoli i motivi dolenti dell’esistere.

Da questa dimensione nasce però anche l’elaborazione di miti individuali e collettivi quale quello, in anni non molto lontani, di una capitale inutilmente sognata a riscatto della posizione socialmente defilata del marchigiano: una Roma mitica, priva di un rapporto effettivo in termini di funzione primaria dello stato.

Rivivendo l’esperienza leopardiana, lo scrittore che lascia questa terra si nutre, miele e veleno della propria coscienza, dell’ambiguo sentimento di odio-amore verso il “natio borgo selvaggio”. In nome dell’impegno sociale egli giunge nella città labirintica e vi trova approssimazione, colpi di mano, sottogoverno culturale, compromissioni; ed allora torna idealmente alla vita lenta ma profonda della provincia, dove il confronto con la realtà è almeno genuino, tutto teso a registrare gli andamenti dell’umore di certi gruppi, a cogliere il trapasso stagionale, le infinite incidenti di una vita collettiva tutta esposta, vissuta per le strade e nelle piazze.

E questo è stato anche il destino di Dolores Prato che,nei suoi due romanzi per ora pubblicati, sembra riassumere la complessa, per non dire tragica, dimensione dello scrittore marchigiano, in bilico tra la linea della sapienza, della misura, della solitudine e la linea dell’utopia e dell’interrogativo sociale.

Il caso letterario della Dolores Prato, esordiente a 88 anni, può considerarsi più unico che raro nel panorama,non privo di esordi tardivi, della narrativa italiana contemporanea.

Nata a Roma il 12 aprile 1892, Dolores vive però l’infanzia e la giovinezza a Treia, prima in casa degli zii (e il ricordo di quegli anni è l’asse portante del primo romanzo Giù la piazza non c’è nessuno , pubblicato da Einaudi nel 1980 ), poi, dal 1901-2 al 1910, nel collegio salesiano delle Visitandine, dove è ambientato il nuovo romanzo postumo Le ore pubblicato da Scheiwiller nel 1987 con la cura editoriale che gli è nota,e corredato da una illuminante nota critica di Giorgio Zampa.

Tornata nelle Marche come professoressa di lettere, insegna a San Ginesio e a Macerata. Per la sua posizione di antifascista non ha certo vita facile durante il regime, sicché si rifugia a San Sepolcro, per poi trasferirsi definitivamente a Roma, dove resterà fino alla morte avvenuta ad Anzio il 13 luglio 1983.

Ma già a livello di ‘erlebnis’, di atteggiamento di vita, è possibile individuare nella Prato una aspirazione a salvare l’esistenza dalla condanna della morte trasformandola, attraverso il processo mitopoeitico della parola, in essenza della scrittura, intesa come ritessitura memoriale

degli eventi filtrati dalla soggettività ermeneutica dell’io narrante.

La Prato si dedica per tutta la vita a trasferire in potenziale letterario, raccogliendo materiali e riempiendo fogli e fogli, il patrimonio di ricordi, di sensazioni, di personaggi, legati alla sua autobiografia (sia nel senso di scrittura della propria esistenza sia nel senso di vita della propria scrittura),in particolare agli anni passati a Treia.

La sua ricerca del tempo perduto si concretizza in un voluminoso manoscritto che giunge nelle mani di Natalia Ginsburg. Dopo una drastica riduzione del numero delle pagine e dopo un tentativo rientrato di farle cambiare il titolo ( ma Dolores insisterà per Giù la piazza non c’è nessuno anche per la sua precisa marca di parlato marchigiano ), il libro vede la luce nel 1980 e diventa un caso nella produzione letteraria di quell’anno. Ma la struttura originale del romanzo è completamente stravolta e la dimensione memoriale, proustiana, viene compressa in 282 pagine.

Solo nel 1997 Giorgio Zampa, critico letterario di grande valore e battagliero sostenitore delle qualità letterarie di Dolores, allestirà la riedizione integrale del volume di 760 pagine corredandola di una fondamentale introduzione all’opera.

La poetica della Prato ha come punto di riferimento la linea filosofica che parte dall’equazione platonica mimnesco = gignosco (ricordo = conosco ) e che attraverso Agostino, Petrarca, Leopardi, Proust, arriva fino ad Ungaretti e a Montale. Nulla dunque di simile alla cosiddetta memorialistica di tipo naturalistico descrittivo (anzi i fatti in sé nella vicenda della Prato sono minimi) ma una testualità che ha come momento di sintesi la capacità memoriale del soggetto che seleziona qualitativamente i frammenti di realtà che si trasformano in esperienza gnoseologica.

Con un meccanismo di amplificazione dell’immaginario che ci obbliga al riferimento leopardiano, la Prato ritrova nella memoria l’impronta della città marchigiana:

               Noi cominciamo ad essere col primo ricordo che riponiamo in magazzino. Il luogo dove si ebbero i primi avvertimenti della vita diventa noi stessi. Treja fu il mio spazio, il panorama che la circonda la mia visione .[1]

 Ed il rapporto tra lemma e luogo, tra grafia e spazio, è determinato dalla capacità reattiva del soggetto a risuscitare il ricordo attraverso le proustiane intermittenze del cuore:

               Nella lunga monotona parentesi collegiale,il nome Treja appariva sulla posta che arrivava,per tutto il resto era scomparso,sostituito dal nome del collegio. Ma dal collegio esplosi a Roma e qui, di colpo, quando in un labirinto della vecchia città lessi ‘Piazza dell’Olmo di Treja’ uscì fuori tutta la tenerezza fascinosa di quel paese che m’ero portata dentro senza saperlo. Fu la prima delle tante epifanie”. [2]

Il dramma della Prato, come per un altro grande scrittore marchigiano, Franco Matacotta, è, per dir così, nel peccato d’origine, nel suo “sentirsi diversa”. L’incipit del romanzo rivela subito il rovesciamento del consueto punto di vista. Fondendo nella prima persona le funzioni del personaggio, dell’autore e del soggetto storico-autobiografico, la scrittrice descrive il suo mondo dal basso e immette nel reticolo emotivo della lettura il sentimento predominante dell’esclusione:

Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: – Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?
Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma << rimandala >> sì, <<rimandala >> voleva dire mettila fuori dalla porta.
<< Rimandala >> voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo. Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori! Sedevo sui mattoni. Molliche indurite mi si conficcavano nella pelle come sassolini. Quel primo pezzetto di mondo immagazzinato dalla mia memoria lo vedo come adesso vedo la mia mano che scrive. Mattoni rettangolari color crosta di pane, uno coricato, uno dritto, facevano un tessuto a spina.
Come soffitto il rovescio della tavola attraversato da stanghe di legno; le quattro gambe unite da assicelle su cui la gente metteva i piedi, più consumate nel mezzo; l’intera impalcatura ammantata dal pesante tappeto:tutti colori notturni intramezzati da fili d’oro; foglie nere, fiori con parvenza di colori morti, case appuntite trapunte d’oro, nello scuro meno fondo apparivano facce di mori e luccichio d’occhi. Il primo fatto storico della mia vita, intreccio di paura e meraviglia, fu sotto quel tavolino.[3]

La ricerca stessa dei significati, l’ansia semantica, attraverso l’ascolto intenso e lo sguardo indagatore, che caratterizza questo ingresso, così traumatico, nella vita socializzata, deriva dalla centralità che la Prato riconosce all’infanzia come dimensione spazio-temporale della iniziazione simbolica:

              L’infanzia è la sola età in cui l’inconscio affiora senza ostacoli. L’inconscio che sa quel che noi non sapremo mai, l’inconscio che se a lui ci abbandoniamo ci fa divinatori mi parlava, ma io non lo capivo. [4]

 La persistenza della memoria mitica è in effetti la prima traccia della conoscenza:

              Io abito ancora a Treia pur non avendola mai più vista da quell’età piccola che non invecchia. [5]

 E il cammino verso la maturità è cadenzato da prove rituali che l’antropologia e la narratologia hanno individuato come archetipi del processo di formazione del soggetto, dalla centralità chiusa del sé alla proiezione verso l’alterità. A ragione Franco Brevini[6] ipotizza una lettura del romanzo strutturato sulle sequenze canoniche della morfologia della fiaba e basato sul sistema triadico di separazione ( dalla madre e dalla famiglia ), morte simbolica (la entrata in collegio e la chiusura dal mondo) e resurrezione ( la memoria come potenzialità vitalistica e la scrittura come presa di possesso della realtà ) .

Il romanzo è appunto una storia esemplare, tenera e spietata, di una infanzia che cela il segreto di una vita intera, un viaggio psicologico all’interno del proprio io mentre attorno la storia avanza, l’avvolge e inesorabilmente la trasforma:

              Quel poco che ho studiato è scomparso nel buco nero che ho al posto della memoria. Quel che pare ricordo, è tatuaggio, incisione, cicatrice: io leggo i segni. [7]

 La Prato vince le difficoltà di rapporto col mondo, mettendo nel suo modo di raccontare un pizzico d’azzardo, usando uno stile dove l’andamento narrativo delle sensazioni s’incrocia con la frontiera della continua interrogazione.

L’autobiografia (in cui scrittura e vita si confondono) muta in documento di un’umanità in divenire, contributo alla comprensione di una struttura sociale in cui tutti siamo protagonisti e vittime.

Ma anche la patina regionale entra nel testo stesso, a caratterizzare, a livello linguistico, una spazialità ben definita e tracciata dai limiti dell’uso del dialetto, una lingua alternativa a quella ufficiale, fatta di grumi emotivi e di espressività rude, ma utile come segno di riconoscimento di una comunità che anche nel linguaggio ritrova una sua identità e nella quale, per contrasto, la scrittrice trova conferma della propria diversità :

              Tutto quello che si muoveva e che suonava nell’aria, forse era la vita. In quell’epoca le poche parole che incontravo avevano tutte una faccia, ma la vita non ne aveva nessuna……

              I bambini si chiamavano frichì e frichina; i ragazzi bardasci e bardasce. In casa nostra queste parole entravano solo con le donne di servizio.

              Se per la strada una donna ne incontrava un’altra con un frichì in braccio, le domandava : – Quanto tempo ha? – mai quanti mesi ha. Il frichì appena nato cominciava a incamerare il tempo….

              I fiammiferi in paese erano fulminanti. Molto più giusto: bastava strusciarli contro una superficie ruvida che scoppiavano come un piccolo fulmine…….

              Solo Eugenia dentro casa nostra diceva prescia, noi dicevamo fretta…

              – Non voglio cosa, – diceva pure, ma con la o stretta perché solo chiusa a quel modo <<cosa >> valeva << niente >>; con la o aperta, qualcosa era sempre….

              Quel pezzetto di Marche è la patria della fisarmonica, ma non si chiamava così, si chiamava l’organetto e tutti lo suonavano, artigiani e contadini. Lo suonavano camminando, con l’organetto ballavano. Pur essendo figlio dell’organo l’organetto non poteva entrare in chiesa, nelle osterie sì.[8]

 La storia della propria infanzia è una scantafavola narrata anch’essa una sola volta,e quindi irripetibile, come irripetibile è la vita di ognuno di noi, condannata alla consunzione, alla morte:

<< Staccia minaccia >>….mi buttava giù, mi tirava su, mi ributtava giù, più mi buttava e più godevo. Ogni tanto mi stringeva sul suo petto come per un riposo della gioia; il suo petto, un paradiso fatto a pieghe di velo azzurro.

<< Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza >>….; cominciava così, non so come continuasse, ma finiva con un <<giù >> lungo e profondo, atroce e dolcissimo che mi capovolgeva. Emozione e felicità. Il pavimento era la piazza, io il brivido della caduta.

Non l’ho imparata la filastrocca;….poi il pensiero come se parlasse,diceva << Giù la piazza non c’è nessuno >>.

Per le strade, nelle chiese, la gente mi sorvolava. Solo zia Ernestina mi vezzeggiò e non era di lì: veniva di non so dove e se fosse d’Inferno o di Paradiso per me non ha importanza alcuna.

Anche adesso se, nel tentativo di far risorgere il resto, cantileno << Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza >> e sforzo una resurrezione che non avviene, di per sé arriva: << Giù la piazza non c’è nessuno >>.[9]

      Ma c’è, nella iterazione del procedimento ludico, una sorta di presagio della solitudine, un segno ritmato dalla ritualità verbale e gestuale di una iniziale e consapevole discriminazione:

In quella cucina dove tutto era scuro, chiarissimo era che di proposito evitavano di vedermi: ignorandomi volevano dimostrare qualcosa. Me ne accorgevo, ma non me n’importava nulla…..

Talmente disabituata all’attenzione della gente su me che se per forzata convenienza qualcuno mi rivolgeva il suo stupido <<Come ti chiami? >> rispondevo << No >>. Significava: << Non voglio rispondere >>. Odiavo le domande dei grandi; per quanto rare, esse riuscirono a sforacchiare tutta la tela della mia infanzia.[10]

 E’ proprio l’angoscia del non ritorno, la consapevolezza che ogni cosa che è stata non potrà più ancora essere a dare alla memoria della scrittrice una grande capacità di trattenere e filtrare tutti gli eventi, tutti gli oggetti, tutte le persone che hanno comunque lasciato un segno nella sua coscienza. Attraverso la scrittura Dolores riscatta la sua autonomia di giudizio rispetto alla “doxa” paesana, il suo diritto a dirimere il bene dal male sulla base dell’esperienza soggettiva, proponendo, ad esempio, per la figura di Ernesta, una iconografia positiva, in contrasto con il malvagio conformismo degli adulti, sempre giocata sulla metafora oppositiva Inferno – Paradiso:

Ernestina, lui la chiamava, era tutta azzurra; azzurro di cielo chiaro e di cielo scuro il suo vestito; come ali di velo abbandonate una sull’altra, le mollli pieghe…..

<< Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza….>> m’inclinava sempre più all’indietro finché la mia testa toccava quasi terra e io vedevo quel meraviglioso demonio dal rovescio; mai il demonio fu così bello, neppure quando era Lucifero….

A cavalcioni sulle ginocchia di zia Ernestina, vorrei stare per l’eternità. Io fui bambina come i bambini, solo per quel demonio, certo non sposato in chiesa.[11]

 La cronaca dei fatti quotidiani collegata ad una minuziosa descrizione delle coordinate spazio-temporali che raggiunge i caratteri della ossessività nella precisione maniacale della descrizione di stanze, case, vicoli e pietre, è un espediente per sondare qualcosa di profondo e di originario, il tentativo della fanciulla di scoprire se stessa attraverso l’introspezione psicologica mentre attorno a lei il ritmo delle stagioni propone l’idea dell’eterno mutamento, degli addii e dei ritorni.

La scrittrice cerca, attraverso la memoria, di elevare ogni frammento della vita privata e collettiva a simbolo, creandosi un reticolato mitico fatto di uccelli imbalsamati, bauli, rose di Gerico, ritratti, proverbi, gesti, alimenti, viaggi, pellegrinaggi a Loreto, pappagalli, rosari, cerimonie, tradizioni popolari:

La sera c’era la processione del Cristo morto. Vorrei sapere perché me la ricordo come se l’avessi vista una volta sola….

Silenziosa processione nella notte, confraternite, seminaristi, preti, passavo lenti come si conviene alla rappresentazione di un funerale, lampioni velati, il carro funebre camminava solo…

La Settimana Santa diventava pian piano la sagra dei salumi. Certe botteghe sottolineavano spigoli, archi e architravi con fasci di lauro e di bosso.

La sera del Venerdì Santo, nonostante la processione del Cristo morto, in quelle botteghe era già cominciato il Sabato Santo. La gente ci si fermava come davanti ad allegri sepolcri. Matasse di fili d’argento e d’oro cascavano dal soffitto andando ad appoggiarsi da un punto all’altro; su chiodi e rampini sbocciavano fiori di carta; le colonne delle enormi forme di cacio, spesso stavano di fuori come contrafforti;                     posavano su tappeti di carata colorata e dorata, sfrangiolata e arricciata. [12]

 I frammenti degli eventi a cui la coscienza memoriale ha dato dignità di scrittura ritrovano così una loro unitarietà nel rifiuto della diacronia, nella collocazione del racconto dell’infanzia in un tempo sospeso, preistorico:

              Noi non siamo mai cominciati: il gancio a cui si attacca il primo anello della catena nessuno lo troverà; lo trovò senza cercarlo Gesù Bambino che appena nato ha già l’aria di vedere tutto, di sapere tutto; Lui era un bambino che poteva benedire i vecchi. [13]

 La narrazione dell’infanzia si trasforma, man mano, in denuncia sociale, in ribellione agli schemi di una società che impone una rigida divisione tra popolo e signori, ratificata di fatto nella prossemica dello spazio riservato ai fedeli nella chiesa ( più si è ricchi e più si ha merito difronte a Dio?):

La sedia in chiesa era un segno di potenza, un resto di feudalesimo. La zia entrava, cercava con gli occhi la sua, c’era seduta una poveraccia o una contadina col volume enorme delle sue gonne; con aria padronale bussava sulla sua spalla senza guardarla, quella si alzava e la zia gliela toglieva quasi di sotto, tanto simultaneo era il cedere di una e il riappropriarsi dell’altra, feudale padrona di una sedia;[14]

 e messa in risalto ( tramite la cifra socio-formale, nel caso sotto riportato, dello stile nominale ) da una crudele emarginazione della povertà, che condiziona la struttura urbanistica della cittadina:

Ogliolina dicevamo noi, strada nera, stretta, un poco storta. Casucce buttate a caso, emergenti, sprofondate, sconquassate, molte puntellate; casa e stalla si fondevano come il cattivo odore con l’aria. Affastellamento di legno imporrito e mattoni rotti, finestre piccole come sportelli da confessionale, usci con battenti sgangherati. Da un tetto all’altro, canne o corde cariche di cenci, cenci alle finestre, cenci sui muri, cenci addosso alla gente.

Quella gente era un mistero. Una famiglia per ogni buco, ma tutti insieme erano una cosa sola, erano i Mosci; [15]

perpetuando l’ingiustizia sociale anche dopo la morte:

Solo dopo la morte erano tutti << poveri >>, anche i ricchi. Ma un povero vero che moriva, spesso era << nessuno >>. Suonava la campana a morto, uno domandava :

– Chi è morto ? – l’altro rispondeva : – Nessuno, il brecciarolo di Borgo .[16]

 Il rifiuto di essere nessuno, la ricerca delle origini e la definizione della propria identità sono alla base del sentimento della differenza che informa i pensieri di Dolores, emarginata non socialmente ma psicologicamente, diversa al punto da non poter contare sulla memoria per sentirsi se stessa e da non poter ritrovarsi nelle categorie del tempo e dello spazio:

<< Vuole sapere chi è il padre >>. Assolutamente non ricordo di averlo voluto sapere allora. Ma essendo io un’eternità spezzettata, tanti pezzetti di eternità mischiati con tanti vuoti, tanti niente, la mia domanda potrebbe rientrare in uno di quei niente. So di non aver avuto mai memoria; dovevano incidere o scottare le cose per durare. Quello che appare memoria è raccolta di cicatrici, o album d’incisioni. Se ho scordato è segno che del padre non m’importava proprio niente. E poi non era solo un padre sbagliato che avrei dovuto cercare, tutto avrei dovuto cercare, perché tutto era sbagliato. Non lo sapevo io, ma lo sapeva il mio io nascosto, lo sapeva quello che m’impediva sempre di chiedere spiegazioni…

In fondo ero tanto sola che non avevo neppure radici; l’ignorarlo non significava che la pianta non stentasse.[17]

 In questo vuoto, in questa assenza di storia, irrompe l’utopia compensatrice, la forza di un futuro imprevedibile che riscatti la banalità della cronaca, confuso tra il miracolo e il presentimento:

…Ora, distesa sul canapé, con i piedi piagati, nell’oscura sala da pranzo, incominciai a sognare l’avvenire. Sarò Regina ! Certo è possibile, benché difficile.  Che c’è più alto della Regina ? La Madonna. Ma la Madonna era un pasticcio: vergine e madre……..

              Ero lontanissima dal supporre che cosa volessero dire le due parole, sapevo solo che c’era di mezzo un miracolo. Per me si sarebbe compiuto; s’era compiuto per la Madonna ? dunque era possibile. E se invece diventassi scrittrice ? I miei compiti la maestra li leggeva forte in classe.[18]

 Ma la Prato, seguendo le credenze dell’onomastica antica basate sull’equivalenza nomen = omen , è convinta che il destino di ognuno di noi è delineato nei segni che riassumono tutto il nostro tempo. La sua costante, ossessiva, attenzione alle parole, ai suoni, ai significati, è il segno del suo desiderio di leggere nel linguaggio le orme di un cammino già tracciato eppure ignoto, presagibile solo attraverso la lettura di indizi semiotici. Così ella ha ritrovato, almeno in parte, sulle rive del Delta del Po le origini del suo amato zio e nel suo nome (Dolores) il marchio della sua sofferenza:

Tutto si chiude: il Delta, nostro principio e nostra fine. Dal grande Delta nacque lui col timbro simbolico del piccolo Delta nel nome, Dominicus; con lo stesso piccolo Delta nel nome nacqui io. Il mio piccolo Delta diventò l’immenso Delta nel quale lui lentamente agonizzando scomparve. Io sono diventata quel Delta in cui lui galleggia.[19]

Giù la piazza non c’è nessuno è tuttavia solo la parte emersa, e ridotta, di un vasto arcipelago di fogli, appunti, frammenti non accolti dalla casa editrice, notazioni linguistiche, che costituiscono l’impianto di una narrazione autobiografica ininterrotta fino alla morte della scrittrice.

Giorgio Zampa, che con assiduo amore e acume critico da anni si è dedicato allo studio e alla valorizzazione della Prato ha finora portato alla luce vari inediti, curando la pubblicazione del dattiloscritto incompiuto che può considerarsi il seguito del primo romanzo, Le ore I ( Milano, Scheiwiller, 1987 ), del volume Le ore II. Le parole ( Milano, Scheiwiller, 1988 ), e della raccolta dei brani dedicati alla città di Treia e non accolti nella stampa einaudiana del 1980, Le mura di Treia e altri frammenti ( Città di Treia, 1992 ).

Globalmente queste opere si configurano come contributi differenziati, nel tempo , nello spazio, e nelle modalità di scrittura, di un unico progetto mirante a trasformare in arte la vita, in parola e segno grafico i gesti, le emozioni, i fatti dell’esistenza. Ma da qui nasce anche la loro complementarietà che permette al lettore di esaminare i testi in funzione di un’opera sempre in fieri , caratterizzata dal continuum della revisione stilistica e dalla registrazione minuziosa di micro-eventi.

Il romanzo Le ore I, ad esempio, racconta la vita trascorsa dalla Prato nel Monastero delle Visitandine, ” isolata nell’altro mondo”, benché il collegio fosse all’ interno della struttura urbanistica della città, accorpato alla chiesa di Santa Chiara.

Qui il tempo è lento, quasi fermo, scandito soltanto dai riti religiosi e dalle ricorrenze dei santi:

              Com’ erano lunghi gli anni in collegio ! Natale arrivava quando quell’altro già si tingeva d’azzurro per la lontananza. Quel che ritornava, ritornava dopo tanto tempo. Forse perché allora erano piccoli pensieri, piccoli dolori, non bastavano a riempire il tempo.

              Lì dentro s’ignorava il momento preciso in cui si passava da un anno all’altro.[20]

 In questo mondo si muove agevolmente la Madrina , una monaca il cui ritratto adombra il personaggio ambiguo e intrigante della Monaca di Monza, mentre alla giovane Dolores il mondo esterno si propone come paradiso perduto, allontanato da divieti e rinunce. Ma è sufficiente leggere Le ore II per capire come la Prato determini una connessione tra la frattura dello spazio subita con la chiusura in collegio e la frantumazione del codice linguistico, sottoposto anch’esso alla torsione di un sistema rigidamente impostato sul rispetto di norme e prescrizioni:

In paese l’universo per me era negli occhi e nelle parole. In collegio, stando quasi sempre chiusa, l’universo degli occhi si restrinse a quel panorama, sempre quello, ai corridoi, ai cameroni, si moltiplicò quello delle parole.

La parola  era un mito per quel che appariva a noi, ogni parola poteva diventare leggenda; per loro era di certo logos, parola sì, ma con un perché.[21]

 

La censura, sessuofobica e perbenistica, è avvertita anche attraverso le imposizioni di una pedagogia linguistica che rimuove il dialetto, determinando nella educanda uno sradicamento dal proprio passato e dalle consuetudini espressive acquisite nel contesto familiare:

In casa e fuori di casa tutti si diceva << cazzotto >>, anche Zizì che era dotto e parlava bene diceva cazzotto…..

Io in convento dissi cazzotto e tutti si scandalizzarono……

Io ne fui mortificata e non dissi mai più cazzotto, ma pugno, sempre pugno fino ad adesso che sto scrivendo del cazzotto. [22]

In casa si diceva la cazzarola, forse l’unica parola dell’uso universale del paese che adoperavamo, ma in collegio non solo erano enormi, si chiamavano casseruole con tanto di dittongo. [23]

 L’adozione di un nuovo linguaggio, imposto e dolorosamente accettato, è il sintomo del condizionamento e della forzata metamorfosi a cui è costretta l’identità del soggetto nel suo processo di socializzazione:

In fondo fu un grande cambiamento di parole, per il resto, un peggioramento, piantarono nella mia coscienza scrupoli, paure, ossessioni, che Zizì, prete, non aveva mai sognato.

Rovinarono la mia vita.[24]

 E’ dunque su una base linguistica che si determina, in Le ore I, la tematica della polarità spaziale dentro/fuori che percorre come struttura portante tutto il racconto della vita collegiale, dalla simbolica morte che spezza i legami col mondo nel momento dell’ingresso in collegio, espressa attraverso la negazione della coscienza:

Non mi vidi uscire di casa, non me lo disse nessuno strappo; non so se andai a piedi o in carrozza;…….era mattina, era pomeriggio? Avevo mangiato? Non lo so…….Dopo la fotografia dei due fondali non so che successe, non so quando…….Non seppi più nulla……Più niente vedo, più niente sento……Più nulla vidi, di niente m’accorsi più…..niente vidi…..e tornai a non vedere a non sentire più niente. [25]

 fino alla contemplazione a distanza, dall’interno della prigionia psicologica, del paesaggio marchigiano, un microcosmo edenico in cui ritrovare la nostalgia dell’infanzia:

Io sola guardavo dalle finestre……

Guardavo dalla finestra di levante dove gli ulivi quando soffiava il vento erano cangianti come un vestito di seta della zia, verde ulivo e verde argentato. Da quella finestre aperta coglievo quel silenzio che sentii da bambina sperduta nella campagna; ma era un attimo….

Dall’ultima finestra di mezzogiorno vicina al mio banco vidi uno spettacolo meraviglioso: la nebbia aveva tutto coperto, noi emergevamo e più in basso la Villa Bonaparte era una piccola isola nel mare della nebbia. Inutile avvertire le altre, in tutto il tempo che sono stata lì né una monaca, né una ragazza si sono mai accorte del mondo che si poteva vedere con gli occhi fuori del sacro recinto. Stupendo sì quello spettacolo, ma il tempo lo seppellì.[26]

 Esaminando in prospettiva sincronica le strutture narrative delle opere della Prato, risulta comunque evidente che in esse il soggetto rivendica la sua centralità anche attraverso la modifica continua delle categorie di spazio e di tempo, utilizzate non come parametri certi di conoscenza ma come moduli reattivi del proprio io messo di fronte agli eventi dell’esistenza.

Rompendo la struttura tradizionale del Bildungsroman, basata sulla progressione dei fatti e sulla conseguente crescita gnoseologica dell’io-personaggio, la scrittrice marchigiana ha inserito, nella sua storia e nella sua scrittura, il senso del non finito, l’ambiguità dell’autobiografia imperfetta.

Il tutto condensato nella metafora, limpida nella sua icasticità, leonardesca e montaliana, del fluire del mondo:

              Eravamo tutti inconclusi. Lui che aspettava di tornare a far fortuna in America, io che aspetto ancora di fare quel che ho sempre pensato di fare e non farò. Come il Sile, fiume inconcluso, fiume disperso. [27]

 

Note bibliografiche

[1] DOLORES PRATO, Giù la piazza non c’è nessuno , Torino, Einaudi, 1980, p.4

[2] Ibidem , p.5

[3] Ibidem , p.3

[4] Ibidem , p.278

[5] DOLORES PRATO, Le ore II. Parole , Milano, Scheiwiller , 1988, p.101

[6] vedi FRANCO BREVINI, L’innamorata dei nomi , Milano, Città di Treia, 1989

[7] DOLORES PRATO, Giù la piazza non c’è nessuno , op. cit., p.88

[8]     Ibidem , pp.112-113, passim

[9]     Ibidem ,   pp. 56 -57, passim

[10]   Ibidem , p.16

[11]  Ibidem, , pp.55-57, passim

[12]  Ibidem , pp.177-178, passim

[13]   Ibdiem , p.4

[14] Ibidem , p.226

[15] Ibidem , p.238

[16] Ibidem,   p.242

[17]Ibidem ,   p.241-242 passim

[18]Ibidem ,   p. 271

[19]Ibidem ,   p. 279

[20] DOLORES PRATO, Le ore  I, Milano, Scheiwiller, 1987, p.222

[21] DOLORES PRATO, Le ore II. Parole , op.cit., p.88

[22] Ibidem , p. 25

[23] Ibidem , p. 111

[24] Ibidem , p. 94

[25] DOLORES PRATO Le ore I, , op. cit., pp. 14 -18, passim

[26] Ibidem , pp. 143-144, passim

[27] DOLORES PRATO, Giù la piazza non c’è nessuno , op. cit., p.282

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