La genetica inappropriabilità del bene archeologico

di Silvia Cecchi

Ringrazio sentitamente l’Associazione Le Cento città che mi ha invitato alla conversazione pubblica di questo pomeriggio, la Fondazione Cassa di Risparmio di Fano che ci ospita e in particolare il professore e amico Alberto Berardi che mi ha chiamato personalmente e che è stato il promotore e sottoscrittore, insieme all’avvocato Tullio Tonnini, dell’esposto originario che diede avvio, nel 2007, alle note vicende giudiziarie della statua L’Atleta Vittorioso.

Consapevole che l’uditorio qui presente conosce già bene la lunga avventura della statua, dall’approdo fortunoso sulla spiaggia di Fano ai vari illeciti passaggi di mano, dall’occultamento in territorio nazionale all’ esportazione clandestina, dal primo restauro ‘selvaggio’ a quelli successivi, e conosce anche le molte tappe della pluriennale vicenda giudiziaria conclusasi per ben due volte con l’emissione di un’ordinanza giudiziale di confisca della statua, mi limito a fare cenno in questa sede a taluni aspetti della vicenda tuttora pendente, sia sotto il profilo giuridico-giudiziario, sia sotto il profilo giuridico-culturale.

1-Dopo l’ordinanza GIP di Pesaro 3.5.2012 (Giudice M. Di Palma), che segue la prima ordinanza emessa in data 10.2.2010 (Giudice L. Mussoni), la battaglia giudiziaria diretta a ottenere la confisca della statua sembrava vinta, sia perché entrambe le ordinanze erano dichiarate immediatamente esecutive, sia perché gli annunciati ricorsi per Cassazione apparivano sguarniti di veri e fondati argomenti, sia infine perché l’esecuzione internazionale della disposta confisca era ed è assistita da duplice trattato bilaterale con gli Stati Uniti (trattato del 9.11.1982 ratificato in Italia con legge 26.5.1984 e trattato bilaterale sottoscritto in Roma il 3.5.2006, ratifica autorizzata con legge 16.3.2009, in vigore a decorrere dall’1.2.2010) che assicurano collaborazione nell’esecuzione di provvedimenti di questo contenuto, tanto che una prima rogatoria internazionale era già stata predisposta dal nostro ufficio per l’inoltro in via diplomatica negli Stati Uniti.

E allora quali sono i problemi sopravvenuti. Come noto, con ordinanza del 4.6.2014 la Corte di Cassazione, investita dal ricorso del legale rappresentante del Getty Trust, dr. Stephen Clark, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata in quell’atto, con riferimento alle norme del codice di rito (art. 127 c.p.p.) in tema di udienza camerale (prevista per il caso che ci occupa) nella parte in cui non consentirebbero alla parte interessata di chiedere e ottenere udienza pubblica, in asserita violazione della norma ex art. 6 C.edu. A mio avviso la questione non aveva motivo di essere posta e non ricorrevano ragioni tali da imporre ai Giudici di legittimità di investirne la Consulta, con conseguente differimento della pronuncia definitiva del caso, ma ci rimettiamo a quanto statuito. Sul punto ha parlato poco fa esaustivamente l’Avvocato dello Stato e non devo aggiungere altro, per cui mi limito a esprimere fiducia nella futura decisione della Corte Costituzionale.

 

Ciò che mi preoccupa maggiormente è che possa residuare, esaurita questa fase incidentale che si preannuncia già lunga, un’ulteriore questione, sulla falsariga di quella sollevata dalla Suprema Corte con remissione alla Corte Costituzionale (ordinanza 30.4.2014), pochi mesi prima dell’ordinanza che per ora ci riguarda (4.6.2004), in tema di confisca urbanistica: una lettura convenzionalmente orientata di tale normativa sembra infatti evidenziare una violazione dell’art. 7 Cedu, giacché la confisca, quando si configura come sanzione, può essere irrogata solo in presenza di contestuale sentenza di condanna nel merito del suo destinatario, secondo le norme della convenzione europea dei diritti dell’uomo sopra richiamata e l’interpretazione datane dalla Corte Edu. e dalla Corte di Giustizia (in particolare: sentenza Varvara).

L’ordinanza di rimessione della Suprema Corte peraltro è questa volta di assoluto pregio (sostanziale e formale), laddove illustra con argomenti profondi e convincenti come una lettura ‘convenzionalmente orientata’ mai potrebbe far venir meno principi e capisaldi normativi irrinunciabili posti dalla nostra Costituzione, i quali pertanto non possono piegarsi oltre i limiti neppure per adeguamento acritico alle norme della Convenzione europea. Fra tali principi-cardine, la citata ordinanza annovera la funzione sociale della proprietà privata (e la sua funzione pubblicistica), la priorità dei beni della salute, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio artistico-archeologico (art. 9 Cost), oltre ad altri beni-valori a tutti noti.

Di qui la necessaria disarticolazione tra confisca e condanna ogni qualvolta la confisca miri a conseguire la tutela di beni priori. E se ciò vale- possiamo aggiungere noi – in caso di lottizzazione abusiva (in cui la confisca obbligatoria, che può per l’ordinamento italiano disporsi anche in assenza di una pronuncia diretta di condanna nel merito, a carico di imputati determinati, è finalizzata alla tutela del paesaggio-ambiente), a maggior ragione ciò deve valere in caso di confisca finalizzata alla tutela e recupero di beni archeologici illecitamente sottratti alla potestà dello Stato (anche in considerazione del riferimento esplicito alle norme sul contrabbando di cui al DPR 43/1973, cui fanno richiamo tutte le norme succedutesi nel tempo, dall’art. 66 L. Bottai fino alla norma ex art. 174 Codice Urbani, in punto di confisca dei beni).

Più in generale va detto che l’integrazione tra il nostro ordinamento normativo nazionale e l’ordinamento giuridico europeo (disegnato soprattutto dalle pronunce emesse dalla Corte Edu e dalla Corte di Giustizia) – stante l’obbligo di interpretazione convenzionalmente orientata delle nostre norme nazionali, codificato all’art. 117 della Costituzione – oltre a produrre indubbi effetti benefici, ha anche generato una serie di falsi o eccessivi problemi di interpretazione e un certo disorientamento sotto il quale si avverte talvolta una certa apodittica sottomissione della giurisprudenza domestica ai dettati delle norme e statuizioni giudiziarie europee. E’ questo un aspetto su cui vale la pena riflettere, anche sulla scorta della chiara e coraggiosa presa di posizione di cui alla bella ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale a cui facevo poc’anzi riferimento.

Confido comunque che la Corte Costituzionale avrà già avuto modo di risolvere la questione ultima prospettata (impostasi nell’ambito di altra vicenda, come detto), nel tempo in cui potrebbe proporsi anche nella vicenda che ci riguarda. Confido soprattutto nel riconoscimento tempestivo degli aspetti differenziali tra la confisca-recupero (in materia di esportazione illecita di beni di valore archeologico-artistico) e la confisca-sanzione in materia urbanistica di cui si occupa l’ordinanza appena ricordata. Non posso in questa sede entrare più approfonditamente nel merito delle questioni a cui ho fatto cenno, tentando di spiegare le motivazioni giuridiche ben salde che fondano le nostre ragioni sulla statua.

Aggiungo che, a mio avviso, e anche al di là della resistenza delle nostre norme fondazionali di rango costituzionale rispetto a quelle europee richiamate, non ricorre nel nostro caso neppure una vera collisione tra la norma di cui all’art. 174 Codice Urbani e le norme ex artt.6 e 7 Cedu, se bene intese.

Aggiungo infine che le ordinanze giudiziarie che hanno disposto la confisca del bene hanno contemporaneamente accertato la sussistenza del reato di esportazione illecita sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo, dimostrando l’assenza totale di buona fede e più esplicitamente la mala fede (o ‘dolo’) in acquisto in capo ai soggetti i cui eredi (nella detenzione e nel suo vizio tralatizio) sono gli attuali detentori materiali della statua.

Non possiamo nasconderci tuttavia che, ove dovesse essere sollevata anche la seconda questione di costituzionalità, con riferimento questa volta all’art. 7 Cedu, la decisione finale sul nostro caso subirebbe un aggiuntivo ritardo e questo non può che dispiacerci. D’altra parte, prima di quel momento sarebbe inopportuno e vano attivare rogatorie internazionali, nonostante l’immediata esecutività delle ordinanze di confisca.

2-Un accenno alla storia della legislazione italiana in tema di tutela del patrimonio archeologico-artistico-culturale. Sappiamo bene che l’Italia può vantare una gloriosa primogenitura in questa materia, avendo prodotto sin da epoca antica testi normativi che continuano a costituire modello di riferimento per ogni altro Paese e Legislatore.

Tale primato e detta qualità giuridica delle leggi in materia, trova origine nel concetto romanistico di bene comune e di utilitas ma prenderà la forma di una tutela normativa specifica dei beni artistico-archeologici (quali beni peculiari e irriducibili ad ogni altra ‘res’) a partire dalla Costituzione apostolica di Gregorio XIII del 1574 fino all’editto Albani del 1735, dalle legislazioni napoletana e toscana del Settecento all’Editto Pacca del 1820; infine, venendo al secolo scorso, dalla Legge Bottai del 1939 al Codice Urbani del 2004-2006.

L’inappropriabilità del bene archeologico (sempre) e artistico (nei debiti casi) discende in definitiva dal suo sottrarsi alla categoria o statuto della res in senso stretto o proprio, da una sorta di inappropriabilità genetica che la distingue, per la sua destinazione alla fruizione (tendenzialmente) da parte di tutti, per la sua natura ‘più che oggettiva’ (connubio tra materiale e spirituale, tra oggetto e soggetto), per la sua inerenza a un contesto ambientale-territoriale-comunitario che concorre a definire e a cui conferisce identità. In questa intuizione profonda riposa l’essenza della normativa speciale maturata nei secoli in questa materia.

Persino la Grecia ha copiato la nostra legislazione in materia di beni culturali, come la maggior parte dei paesi del mondo che se ne sono voluti dotare.

Profondamente innovativo è anche l’art. 9 della Costituzione italiana, alla cui stregua il valore del bene artistico-culturale è accostato e come assimilato a quello del paesaggio, dell’ambiente, in un tutt’uno di cosa d’arte e contesto ‘segnico’ naturale e culturale circostante, le cui significazioni reciprocamente si danno rinvio e si integrano, dettando il criterio guida, ormai universalmente eletto dalle più importanti convenzioni internazionali sui beni archeologico-artistici (sia Unesco che europee) stipulate almeno dal 1970 in poi, circa il destino territoriale dei detti beni, quando trafugati o quando altrimenti sottratti ai siti archeologici di rinvenimento.

 

3- Quanto detto potrebbe già bastare a definire l’ambito territoriale a cui la statua maggiormente compete, ma alle stesse conclusioni giungiamo anche spostandoci dal piano più strettamente tecnico-giuridico al piano giuridico-culturale.

Ci sia di riferimento, se necessario, la vicenda della statua greca denominata l’Apoxiòmenos o ‘bronzo di Lussino’, dalla quale è facile trarre anche una lezione indiretta per il caso che ci occupa, se non altro in considerazione delle evidenti analogie fra le circostanze del ritrovamento, avvenuto in un caso nell’Alto e nell’altro caso nel Medio Adriatico, a distanza di qualche decina d’anni l’uno dall’altro.

La statua ‘di Lussino’, venne avvistata, come sappiamo, del tutto casualmente da un sommozzatore belga durante un’immersione, il 12.7.1997; lasciata quindi sul fondo del mare ove era inabissata, sotto la sorveglianza dell’Autorità croata, in attesa di predisposizione della più adeguata attività di recupero; infine recuperata nel giugno 1999 ad opera della squadra sommozzatori della polizia croata; venne intrapreso quindi un lungo lavoro di restauro, durato ben sei anni (contro il solo anno in cui sarebbe stato esaurito il restauro della statua di Lisippo ad opera di un privato antiquario di Monaco), affidato all’ Istituto croato per il restauro di Zagabria con la collaborazione dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e il contributo di un noto esperto restauratore di opere da relitti marini (per tecniche di disincrostazione), tal Giuliano Tordi. A conclusione di questa lunga e delicata fase di salvataggio e recupero del bene, la statua venne esposta al palazzo Medici Riccardi tra la fine 2006 e l’inizio 2007, quindi al Louvre per alcuni anni (mostra durata fino al febbraio 2013, a richiesta della Direzione del Louvre e in stanza dedicata), tornando infine in Croazia, dove è stato allestito un museo apposito (c.d. one man show) a Lussinpiccolo, presso il Palazzo Quarnero. Non credo che siano necessarie chiose ulteriori ad una vicenda così autoeloquente.

 

Le ragioni storico-culturali a favore del reinserimento della statua attribuita a Lisippo in territorio italiano e anche ‘locale’ sono del resto plurime.

Mi è capitato in altre occasioni di soffermarmi su di esse, ma poiché sembra che i più volte detti argomenti incontrino tuttora molte tenaci obiezioni, vale la pena di riflettere ancora una volta su tale aspetto della questione e in particolare sulla rilevanza della localizzazione del sito archeologico di ritrovamento e sull’appartenenza dell’opera alla civiltà greco-romana.

Da un lato l’importanza del sito archeologico ai fini scientifico-culturali è universalmente riconosciuta e protetta, anche nei trattati internazionali, e anche con rilievo autonomo. Dall’altro non vi è dubbio che la statua debba inscriversi culturalmente nella civiltà ‘greco-romana’, perché così si configura e si configurava in senso storico-politico e culturale la civiltà nel cui ambito la statua aveva irradiato i propri effetti al tempo del suo fortuito inabissamento marino.

La stessa presenza di più statue naufragate in luoghi prossimi e con modalità del tutto analoghe addita rotte e destinazioni comuni: basti pensare alle tante ville romane a Lussino (di cui ancora sono visibili i resti), alle tante ville dalmate, tra cui le splendide ville di Diocleziano e di Tiberio. Ci diviene allora facile immaginare trasferimenti di statue (per lo più ‘in dismissione’) da un luogo all’altro dell’ormai costituito impero greco-romano, per finalità per così dire legittimate dalla storia.

Anche Adriano, come sappiamo, aveva fatto trasportare copie o statue originali dalla Grecia e dall’Asia Minore presso la sua villa Adriana e nessuno dubita che tale ‘traduzione’ le abbia per così dire ‘romanizzate’.

Del resto è risaputo (così sostengono diversi storici e critici d’arte) che la statua di cui parliamo fosse già stata introdotta molti anni prima del suo naufragio in terra italica, per fini ‘didascalici’ e con modalità itineranti, come attesterebbero plurimi riscontri di recepita imitazione: mostrata cioè come esempio di bello stile, come modello di bellezza e di proporzione da studiare e da imitare. Sarebbe così avvenuta una sorta di sua ‘naturalizzazione’ in territorio italiano, ancorché greca per origine e scultore.

Sotto il profilo propriamente artistico e di lettura artistica (ma qui i tre fili del discoro, giuridico, storico ed estetico s’intrecciano) è ormai acquisito e condiviso che l’opera d’arte debba colloquiare con il contesto ad essa più prossimo, per potere esprimere al massimo la propria significazione.

Né ‘reliquia’ (che per antica usanza appartiene sempre al luogo in cui essa è naufragata o è spiaggiata per volontà divina o per leggenda), né merce di scambio (che appartiene solo a chi la compra), il bene artistico e ancor più il bene archeologico sono beni non solo comuni, ma anche immersi in relazioni segniche composite, oggetti ‘colloquianti’ con il loro contesto ambientale in senso ampio, dal quale non possono venire recisi senza grave vulnus comunicativo.

E per certo ricusiamo di costringere beni di questo valore e natura in una cattività frutto di condotte illecite: da quel momento in poi l’opera ci parlerebbe di malaffare più di quanto ci parlerebbe di sé medesima e della trama di relazioni e di rimandi molteplici di cui è capace. Possiamo accettare che la sua collocazione attuale sia figlia della storia, e anche di una storia complessa e persino per certi aspetti ‘iniqua’, ma non possiamo accettare di poterla ammirare in una sede che sia l’effetto di un lungo iter delittuoso.

Di qui il dovere dello Stato di rispettare i dettami della comunità culturale e giuridica internazionale, a tutela dei propri interessi specifici – tutela che ha a che vedere con l’identità di una comunità culturale, ben sapendo come questi beni simbolici siano ragione di coesione, di senso, di storia e di ricchezza di cui ogni collettività ha bisogno, presupposti altresì della sua forza esterna e resilienza – nonché di un interesse universale.

4- A questo proposito è doveroso ricordare come il comportamento dello Stato Italiano nel caso specifico possa rivendicare una linea genealogica ‘virtuosa’ a contrappeso dei fin troppo rimarcati errori e negligenze, che pure vi sono stati.

Penso, fra gli altri atti e condotte formali: alla rogatoria internazionale 10.12.1977 avanzata dal Pretore di Gubbio Matteini Chiari e respinta dagli Stati Uniti per mancanza (all’epoca) di trattato bilaterale idoneo; alla nota del Ministro Siviero del 1978 in risposta alla nota del Consolato Generale d’Italia a Los Angeles, in cui si rappresenta che anche ad avviso dell’avv. Walley del Getty Museum (rectius: del Getty Trust) la questione del diritto sulla statua non è affatto pacifica; alla nota-missiva datata Roma 11.2.1981 del Comando TPA dei carabinieri indirizzata al Ministero degli interni- Interpol in cui, richiamata la missiva del Ministro dei beni culturali, si compendiano ufficialmente le ragioni dello Stato italiano sulla statua; penso soprattutto alla lettera a firma Direttore Generale Ministero dei beni culturali dr. Sisinni del 14.3.1989 rivolta al Direttore del Getty Museum con richiesta formale ed ufficiale di restituzione della statua, nonché alla corrispondenza successiva tra Ministero italiano ( mi è nota quella del 2006) e Direzione del Getty Museum e infine alla stessa richiesta di confisca formulata dall’ A.G pesarese fin dal 12.7.2007 (atti in gran parte idonei a interrompere la prescrizione acquisitiva ‘lunga’, ancorché si verta in tema di diritti insuscettibili di usucapione).

8- Proprio perché ho cara la distinzione tra ‘ordine’ giuridico e ‘ordine’ politico e la relativa separazione fra i discorsi, ripongo piena fiducia nelle Corti investite del problema, confidando in particolare che la Corte Costituzionale operi in puro punto di diritto, che valuti criticamente il problema dell’adeguamento della normativa interna a quella europea, che tenga ben distinte le situazioni giuridiche e gli istituti ad esse connessi e che la Suprema Corte di Cassazione resti anch’essa scevra da condizionamenti di ogni natura e fonte.

Tutto ciò perché sono convinta che proprio e già in punto di diritto la ragione sulla statua sia tutta italiana.

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