di Alberto Pellegrino
La città di Senigallia ha riservato al suo maggiore artista un posto di rilievo nel Museo d’arte moderna, dell’informazione e della fotografia, dove sono esposte 250 opere di Mario Giacomelli (Senigallia 1925 – 2000), che rappresenta a livello internazionale una delle massine espressioni dell’arte fotografica italiana per avere inventato il modo di fare fotografia con uno stile unico e irripetibile. Giacomelli incontra la fotografia per merito del grande fotografo Giuseppe Cavalli che vive anche lui a Senigallia, che è considerato in Italia un’autorità nel campo della fotografia e che ha fondato negli anni Cinquanta il Gruppo Fotografico Misa. Cavalli nei confronti di giovane ricopre il ruolo di un vero e proprio “maestro di vita”, introducendo nel mondo delle arti figurative, della narrativa e della poesia un giovane autore che è alla ricerca di uno strumento che gli permetta di esprimersi la propria personalità e di realizzarsi artisticamente. Giacomelli trova nella fotografia il linguaggio più adatto per rappresentare il suo mondo interiore e in un’intervista del 1993 Giacomelli dice: “Che cosa mi ha dato la fotografia? Non so con precisione che cosa mi ha dato la fotografia, posso dire soltanto che con essa ho aperto un cancello, perché questa è in fondo la mia idea di fotografia: apro un cancello e vedo un giardino pieno di ogni cosa che desidero, che mi sfugge di continuo, ma che di continuo io posso afferrare…L’unica cosa certa per me è questa immensità della fotografia: il fotografo ha bisogno di un vuoto, di uno spazio avanti a sé e in questo spazio lui vuole che danzino immagini che sono soltanto segni, scritture indecifrabili per gli altri”.
I temi del dolore universale
Nel 1955 Giacomelli entra per la prima volta all’interno dell’ospizio di Senigallia, dove pensa di realizzare “Vita d’ospizio”, un documentario sulla vecchiaia legato al “neorealismo” allora imperante. Giacomelli intuisce però che i tempi stanno cambiando e che il suo stile è più vicino al “realismo lirico”, perché è capace di rappresentare non solo la realtà ma anche le sensazioni e i sentimenti interiori. Giacomelli intuisce che il “pianeta vecchiaia” (su cui lavorerà fino al 1983) può diventare la rappresentazione di un drammatico sentimento in grado di unire la vita e la morte, la paura d’invecchiare e il progressivo svanire della giovinezza, il graduale smarrirsi della vitalità e l’inaridirsi di un corpo che perde gradualmente l’apporto vitale della linfa come un tronco disseccato. Il racconto Verrà la morte e avrà i tuoi occhi diventa il dramma della vecchiaia, portato fuori dalla cerchia claustrofobica di un ospizio per farne un tema universale che, senza eccessi di sadismo o violenza, riesce a rappresentare, attraverso la decadenza fisica della vecchiaia, un doloroso smarrimento legato all’angoscia di vivere e alla consapevolezza della morte, un sentimento di comprensione, di commozione e di pietà: in ognuna di queste immagini si annida la storia di una solitudine più tragica e dolorosa di qualsiasi racconto scritto; si sente un grido strozzato in un silenzio assordante; si materializza il “vizio assurdo” di vivere in quelle stanze squallide, lungo quei corridoi dei passi perduti, entro un tempo che assume l’assurda dimensione dell’inutile. In questo universo di dolore si aprono tuttavia improvvisi e insospettati momenti di dolcezza, frammenti di un amore che non si rassegna a svanire, una voglia di tenerezza che sfocia nel sorriso o nel caldo abbraccio della solidarietà.
Nel 1957 Giacomelli compie un viaggio a Lourdes e da questa esperienza umana e artistica nasce un grande poema del dolore: le lunghe file dei malati su barelle e carrozzine formano una lunga catena di sofferenza per diventare sul piazzale della grotta una folla dolente in attesa di dare voce alla propria speranza, una massa umana dove le mutilazioni, le deformazioni, le angosce sono grida congelate di dolore. Un’immensa fiaccolata, che si snoda nella notte come una preghiera viva e silenziosa, suggella questo viaggio verso l’alba di una speranza impossibile da decifrare con gli strumenti della ragione, ma solo con la pietà e con la fede. Nel 1995 Giacomelli si reca a Loreto e compone un altro grande poema del dolore, affrontando questo tema con un linguaggio che non cede a nessun compiacimento estetico, ma punta sulla forza coinvolgente del drammatico contrasto dei bianchi e dei neri, sulla magia dello “sgranato”, sull’efficace uso narrativo dei primi piani. L’autore ci permette di sviare lo sguardo, non ci immunizza dalla sofferenza, non assolve il nostro egoismo, non chiede compassione ma una pietà più consapevole, ma “strizza” la nostra coscienza per invocare un comune sentimento di solidarietà verso queste vittime del dolore.
I primi racconti fotografici
Giacomelli, quando scopre che la fotografia gli permette di esprimersi meglio della parola scritta, rivendica per sé il ruolo di narratore, facendo propria la lezione sulla narrazione fotografica impartita dal marchigiano Luigi Crocenzi, considerato l’inventore del racconto fotografico.
Nel 1957 Giacomelli fa il suo esordio con Scanno, il racconto che gli assicurerà i primi riconoscimenti internazionali di alto livello. Nelle sue immagini il piccolo paese dell’Abruzzo diventa il contenitore di una umanità che nasce dall’immaginazione di un poeta: uomini, donne e bambini in nero conducono nelle stradine e sugli usci delle case un’esistenza al di fuori della realtà, in una dimensione quasi atemporale che consente a Giacomelli di scrivere una grande metafora della vita umana.
Nel 1962 Giacomelli sente la necessità di abbandonare per un momento la sua tragica visione esistenziale con la creazione di due racconti che rivelano un aspetto particolare della sua personalità: Un uomo, una donna, un amore affronta i temi della giovinezza e dell’amore vissuti con assoluta spontaneità e dedizione in mezzo alla gente e nell’abbraccio della natura con un efficace equilibrio fra corporeità e sentimento; Io non ho mani che mi accarezzino il volto è invece un racconto realizzato all’interno del seminario di Senigallia, dove Giacomelli vuole inizialmente affrontare il tema della solitudine, ma che si trasforma poi in una rappresentazione–balletto interpretato da giovani seminaristi che manifestano una gioia di vivere capace di esplodere al di fuori di quei corpi racchiusi nelle vesti di futuri sacerdoti.
Un altro straordinario racconto è La buona terra (1964), nel quale Giacomelli si limita a narrare la vita di una famiglia patriarcale di mezzadri marchigiani, dove uomini e donne di diverse età ricoprono un loro ruolo legato alla poesia della terra e del lavoro, alla fantasia dello svago e del gioco. Si tratta di un grande affresco sulla fatica dei campi, la vita domestica, i riti delle stagioni e della festa, le nascite e le nozze, il focolare e la tavola imbandita dentro la grande casa colonica che diventa il simbolo di un’esistenza in cui si riconoscono intere generazioni.
I poemi e i grandi racconti fotografici
L’incontro con la grande poesia avviene nel 1987, quando Giacomelli scopre i versi di Giacomo Leopardi, nascono allora A Silvia e L’Infinito, un’opera che rappresenta uno dei vertici di una poetica dell’immagine, nella quale l’ispirazione compositiva raggiunge una perfetta sintesi tra astrazione e profondità di contenuti. Il rapporto con la poesia diventa poi una costante per Giacomelli che, attraverso l’interpretazione di alcuni testi poetici, crea una serie di eccezionali poemi visivi: Caroline Branson da Spoon River di Edgar Lee Master, Il teatro della neve di Francesco Permunian, Ninna Nanna di Leonie Adams, Felicità raggiunta, si cammina di Eugenio Montale, Passato di Vincenzo Cardarelli, Il canto dei nuovi emigranti di Franco Costabile, , Io non sono nessuno di Emily Dickinson, La notte lava la mente di Mario Luzi, Bando di Sergio Corazzini, La mia vita intera di Jorge Luis Borges. Tutti queste opere sono caratterizzate da una straordinaria correlazione fra testo e immagini, da una correlazione con i temi più profondi dell’esistenza come la vita e la morte, il mito della fanciullezza e la speranza, la religione del sentimento e il culto della natura, attraverso una simbologia mai estetizzante ma sempre funzionale alla narrazione, con un continuo alternarsi di figure e paesaggi, d’immagini di pura fantasia e di fantasmi della memoria.
Il pittore Bastari (1993) è un romanzo fotografico con il quale Giacomelli raggiunge il suo vertice narrativo. E’ un’opera complessa, costruita intorno a un personaggio traslato dalla realtà, protagonista di una storia sospesa tra sogno e dimensione reale della vita, popolata da ombre e fantasmi, da simboli e creature fantastiche. Il percorso narrativo di questo artista diventa un viaggio esistenziale attraverso il travaglio dell’arte, il rifugio nell’immaginario, il tentativo di fissare sulla tela i simboli allucinati della propria fantasia. In una Senigallia quasi surreale Bastari passa attraverso le vie solitarie, rasenta le case dai muri screpolati, cerca invano consolazione nelle pieghe della memoria, nei sogni, nelle illusioni infantili, inseguito da incubi di morte che tenta di esorcizzare cercando rifugio, con il suo povero fardello di speranze, sulla riva deserta di un mare che rimane un mitico simbolo di salvezza. Il pittore ritorna poi a vagare tra le ombre di una realtà evanescente, a rovistare tra le rovine del passato e di una perduta innocenza, a cercare i segni di un’arte ormai diventata l’inutile orpello delle sue illusioni vissute sull’impalpabile confine tra sogno e realtà. Alla fine il protagonista appare al centro di un paesaggio collinare dominato da una bianca casa, luogo deputato dei sentimenti più sacri, oasi di speranza nel deserto dell’esistenza, porto dal quale Giacomelli–Bastari è pronto a ripartire per una nuova avventura dello spirito nella consapevolezza di essere per sempre “un viaggiatore di sensazioni in terre sconosciute”.
Questo straordinario maestro dell’immagine ha sempre mostrato, fino all’ultimo respiro, una fede assoluta nella sua opera, il coraggio di rappresentare il suo mondo poetico in un racconto che costituisce il capitolo finale dell’autobiografia fotografica, sulla quale ha scritto con tremante e tenerissima grafia Questo ricordo lo vorrei raccontare (2000) consapevole che quel “raccontare” non ha più avanti a sé molto tempo e che è mosso dalla volontà di sopravvivere a se stesso in una sequenza d’immagini animate da ombre e simboli, da maschere grottesche e animali fantastici, tutti immersi “nel silenzioso fiume del tempo” con il desiderio di creare un’area magica come “sfogo all’autoanalisi che nasce dal continuo immergersi in me stesso” .
Le storie di terra
Nella rappresentazione del paesaggio Giacomelli ha compito una vera e propria rivoluzione, inventando uno stile caratterizzato da un grande amore per la terra, segnato dalla voglia di raccontare la terra attraverso quei segni e quelle ferite impresse dall’uomo, che rendono il paesaggio irriconoscibile ai suoi occhi. Il paesaggio rivive pertanto in Giacomelli come un simbolo di dolcezza e dolore, come il contenitore di una memoria individuale e collettiva, una pagina su cui registrare passato/presente/futuro di un’esistenza legata alla terra, considerata una madre possente e amorosa, dolente e appassionata, capace di custodire il segreto della vita e della morte. In questo modo il paesaggio di Giacomelli si mostra sofferto, scavato, graffiato e si carica di richiami ancestrali, di sentimenti profondi, per cui la terra diventa elemento materico marcato dalla cupa violenza dei neri, inciso dai segni luminosi dei bianchi, un corpo martirizzato dalle macchine, ma anche un grembo materno per le nostre speranze. Nel tessuto di campi quasi sempre deserti e marcati dalla poetica geometria di segni ricorrenti capita a volte di trovare un albero solitario, il segnale di un’insopprimibile vitalità di questa terra che non vuole morire; è possibile vedere una casa isolata, unico segno di una presenza umana che resiste alle mutazioni del tempo e dello spazio, un porto–rifugio per le radici del nostro passato, nel quale è possibile trovare ancora una difesa per le nostre speranze, il nostro bisogno di sintonia con una natura non più nemica ma elemento vitale. Un modo del tutto originale di vedere il paesaggio è costituito dal Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1967), un affascinante poemetto fotografico che nasce da un’originalissima invenzione materica, unica nel panorama della fotografia mondiale. Giacomelli si rivela ancora un raffinato artefice della fantasia, capace di estrarre dalla superficie di una tavola i significati più nascosti per creare un universo di paesaggi fantastici, di figure umane maschili mostruose o grottesche, di volti femminili dolci e appassionati. Dalla rugosità dei tagli, dall’intrecciarsi delle linee, dalle escrescenze nodose del tessuto ligneo nascono dei segni che assumono una dimensione volutamente onirica, carica di profondi significati umani che si fanno sentire una ungarettiana “docile fibra dell’universo”.