di Riccardo Dottori
Le ultime voci della filosofia del nostro secolo, quella che merita ancora di essere chiamata tale, stanno a una a una svanendo dal nostro presente storico; esse cessano di essere la viva voce della filosofia, del pensare che riflette gli interessi del proprio tempo, i problemi della propria epoca, per divenire le voci della storia, del pensare che parla attraverso la forma fissata dello scritto, o attraverso la forza della rimemorazione. Delle ultime voci che ancora ci parlano, e che portano con sé un modo di far filosofia che è stato non solo caratteristico, ma diciamo anche il bene culturale del nostro secolo, possiamo dire che Hans Georg Gadamer rappresenti una delle più prestigiose, ora che il suo «pensiero ermeneutico» ha conquistato, dopo il mondo europeo, anche quello americano; essa è anche una delle più significative, per il corso di esperienza e di pensiero che ha attraversato, per il ruolo esercitato nell’ ambito della cultura e del pensiero contemporaneo.
Nato proprio insieme al nostro secolo, nel 1900 a Breslavia, egli è potuto passare attraverso tutte le più grandi correnti filosofiche del Novecento tedesco per esperienza diretta, essendo stato alla scuola di Heidegger da un lato, e del neo-kantismo della scuola di Marburgo dall’ altro; cosÌ attraverso il primo gli si apriva anche l’esperienza diretta e il modo descrittivo e analitico del lavoro fenomenologico di Edmund Husserl, mentre d’altro lato l’atmosfera spirituale della propria giovinezza, quella della grande inquietudine politica della repubblica di Weimar, dell’arte espressionista e della critica della cultura occidentale che risuonava da più parti, lo apriva agIi influssi della filosofia della vita di Nietzsche, e di qui al problema del relativismo storico discusso da Wilhelm Dilthey e da Ernst Troeltsch, con una conseguente nuova impostazione delle scienze storiche e dello spirito che sarà un primo preludio della sua ermeneutica. Questa ha infatti a che fare con il «capire» e con i suoi nessi di senso, e non con le spiegazioni di nessi causali che costituiscono le relazioni tra oggetti.
Questi cenni storici sullo sfondo culturale nel quale l’autore si è formato, o si è trovato a operare, non pretendono certo di «spiegare» l’origine e lo sviluppo del pensiero del nostro autore, o della sua identità culturale; è appunto al di fuori dell’intento delle scienze dello spirito quello di dare una spiegazione degli eventi culturali come se si trattasse di fatti. Questi cenni servono soltanto a «capire», cioè tentare di ricostruire un’identità culturale, quella di Gadamer e della sua filosofia ermeneutica, partendo da quelle che possono essere state le sue esperienze più significative, gli incontri più produttivi. Ma dò che da queste esperienze egli personalmente ha tratto, e ciò che egli sulla base degli incontri fatti è riuscito personalmente a elaborare è ciò che costituisce il nostro interesse.
Così vediamo che, laureatosi con Paul Natorp nel 1923 con un dottorato su Platone, egli considererà sempre Platone il vero punto di partenza della filosofia, e il modo di filosofare di Platone, il dialogo, l’autentico modo di filosofare. Inoltre qualcosa di particolare nello sviluppo del pensiero del vecchio Natorp lo colpì, e cioè il concetto del «concreto originario» (Urkonkrete), che benché fosse da questi svolto in modo da arrivare nelle vicinanze del misticismo orientale, tradiva per Gadamer in realtà un malcelato hegelismo. Tutti gli sforzi di rinnovare o di portare a compimento la filosofia trascendentale, che erano stati propri del neo-kantismo, non erano in realtà che lo sforzo di avvicinarsi, o di cogliere il reale nella sua concretezza, nel suo molteplice apparire, o nel suo continuo e inarrestabilÈ divenire. Tale gli apparve, andando avanti negli anni, quando il suo proprio sviluppo intellettuale e culturale lo portò a misurarsi con Hegel, il vero motivo e interesse della Logica hegeliana. Un’opera, quest’ultima, che gli ricordava appunto l’ originarietà o «l’innocenza» della filosofia greca.
È comunque ad Heidegger, presso cui egli ottiene la libera docenza nel 1928 con un lavoro sull’etica di Platone (che diverrà più tardi il celebre Platos dialektische Ethik, 1931), che Gadamer attribuisce il merito di avergli fatto scorgere nella filosofia greca tutto ciò che vi era di vivo e di attuale per il nostro presente, al di là, o meglio al di dietro di tutta quanta la terminologia filosofica e scolastica che si era sovrapposta al vivo spirito dei testi nel corso di tutta la tradizione filosofica occidentale. Come Gadamer stesso dice, «con lui le determinazioni del pensiero della tradizione filosofica diventavano vive, perché esse venivano comprese come risposte a delle reali domande. La messa in luce della storia delle loro motivazioni conferiva a queste domande qualcosa di inevitabile. Domande che vengono comprese non sono semplicemente prese in considerazione. Esse divengono le nostre proprie domande» .[1]
Due sono in particolare i debiti di riconoscenza che Gadamer dice di dovere ad Heidegger, sempre a proposito dei Greci; anzitutto il chiarimento del concetto di phronesis (che può essere variamente tradotto come «prudenza», o «coscienza» nel senso di coscienza morale, o conoscenza pratica, o sapere etico) quale genere del tutto particolare di conoscenza, e cioè come quel tipo di comprensione che si sviluppa nel caso particolare, sulla base della conoscenza della situazione specifica piuttosto che di leggi universali, e il cui risultato non è contenuto nelle leggi stesse, o non è una semplice applicazione dell’universale al particolare, ma piuttosto un accrescimento della conoscenza anteriore limitata alle sole leggi. È questo diverso genere di conoscenza (allo eidos gnoseos) , quello del sapere pratico, sarà da Gadamer assunto come il genere di conoscenza proprio della esperienza ermeneutica. [2]
Il secondo debito nei confronti di Heidegger consiste, com’egli ha riconosciuto, nel fatto che Heidegger gli ha insegnato come al fondo del pensare platonico e di quello aristotelico non vi sia che un solo comune fondamento, che entrambe non siano in fondo che una filosofia del Logos, e che sia pertanto assolutamente fuori di luogo distinguere il pensiero dell’uno come idealismo rispetto al pensiero dell’ altro quale realismo. È sempre la stessa tensione dialettica del Logos rispetto all’essere che è alla base tanto della dottrina delle idee che delle categorie aristoteliche, e in fondo anche degli stessi concetti metafisici fondamentali di dynamis ed energheia. Questo approfondimento del pensiero platonico e aristotelico, più che l’interpretazione di esso come dimenticanza dell’essere e la riduzione dell’ essere a oggettività, è ciò che ha portato Gadamer a fare i conti con i successivi sviluppi delle questioni fondamentali da essi poste in tutta la tradizione del pensiero occidentale, e con l’influenza da esse avuta sullo stesso pensiero scientifico, p. es. su Galilei e Newton, attraverso Cusano e Keplero . [3]
CosÌ egli arriverà a sostenere l’ipotesi, contraria a quella di Heidegger, che si possa scrivere una storia della metafisica come storia del platonismo, inteso come trascendenza verso l’aldilà dell’ ente, quale è contenuta nell’idea del bene, e le cui tappe sarebbero Plotino e Agostino, Meister Eckhart e Cusano, Leibniz, Kant e lo stesso Hegel; qui l’essere non viene concepito come l’essere dell’ente, come essere sostanziale o essenziale, così come le idee non vengono concepite come sostanze. Ma la prima di queste tappe sarebbe lo stesso Aristotele e la sua critica alla dottrina delle idee; ed Hegel sarebbe solo il momento ultimo di questo superamento della dottrina delle idee come di una metafisica sostanzialista, in virtù della dialettica come movimento che dissolve tutti i pensieri solidificati . [4]
Tutto questo per dire non solo quale sia l’ampiezza sulla base della quale sorge la filosofia ermeneutica, ma anche per chiarirne i motivi fondamentali, i principi ispiratori. Questi possono essere cosÌ brevemente riassunti:
1) L’ermenutica filosofica come filosofia ermeneutica.
La filosofia ermeneutica è anzitutto una nuova esperienza dei problemi filosofici, quella esperienza che si chiamerà appunto l’esperienza ermeneutica; questa esperienza consiste nel ritrovare le nostre stesse questioni, i nostri problemi, nei testi filosofici e nei problemi da loro posti nel corso della nostra tradizione di pensiero, in una sorta di colloquio, di dialogo tra passato e presente, che abbatte l’unilateralità della coscienza metodologica, sia storicista che scientista, e vivifica o espelle quella terminologia scolastica che soffoca la voce autentica e viva della nostra tradizione di pensiero. Questo incontro con il passato o questo modo di affrontare nuovamente i problemi filosofici diviene perciò non un metodo, nel senso di applicazione di leggi universali agli oggetti particolari della ricerca, ma un accesso alla verità delle cose stesse, che raggiungiamo direttamente attraverso le domande implicite nei testi e nei problemi filosofici. Questo il senso ultimo del titolo scelto da Gadamer per la sua opera fondamentale, pubblicata nella tarda maturità, Wahrheit und Methode. Grundziige einer philosophischen Hermeneutik, Tubinga 1960. Così si esprime. Infatti Gadamer stesso sul senso ultimo della sua filosofia ermeneutica: «In effetti la nascita della mia filosofia ermeneutica non è in fondo nient’altro che il tentativo di dare una legittimazione teoretica allo stile dei miei studi e del mio insegnamento. La prassi era la cosa primaria. Fin da sempre io ero preoccupato, quasi in modo angoscioso, di non dire troppo, e di non arrivare mai a costruzioni teoretiche che non potessero trovare riscontro nell’ esperienza» . [5]
2) L’esperienza ermeneutica e l’ontologia del giuoco.
Questa esperienza ermeneutica che non soltanto supera l’unilateralità del metodo, ma che deve anche dare la legittimazione di quel che i metodi delle scienze, sia della natura che dello spirito, intendono raggiungere, e cioè la conoscenza nel loro limitato campo di indagine, non solo riconduce queste scienze alle loro autentiche motivazioni attraverso la riflessione ermeneutica, ma deve dare anche una legittimazione di se stessa. Questa legittimazione del suo proprio fare, dei suoi scopi e anche dei suoi stessi limiti, non può essere data che sulla base di un certo concetto del reale, anche se si rifiuta in partenza ogni forma di metafisica; questo concetto del reale, o questa ontologia implicita all’ esperienza ermeneutica, è basato fondamentalmente sull’ esperienza dell’ arte, di quell’ arte che non è l’oggetto di un’alienante esperienza estetica, ma della riflessione ermeneutica che si domanda quale sia il valore di verità di essa stessa, e che legittima così 1′ esperienza estetica. L’esperienza del reale che ci si dischiude attraverso l’opera d’arte è quella del giuoco; con il giuoco non si intende infatti niente di soggettivo, non la semplice volontà di giuocare o di partecipare all’ arbitrio del giuoco; né il giuoco è il semplice oggetto del nostro arbitrio. Nel giuoco invece i concetti di soggetto e oggetto risultano semplicemente inadeguati, così come inadeguata risulta la distinzione di un soggetto che inventa o partecipa al giuoco, e un soggetto che risulta semplice spettatore. Il giuoco è piuttosto un accadere in cui soggetto e oggetto, spettatore e attore, risultano sottomessi alle stesse regole, che costituiscono la serietà del giuoco; come nella natura, p. es. negli animali, il giuoco è rappresentazione di sé, così nell’ arte esso costituisce l’accadere fondamentale in cui sia l’artista che lo spettatore, o il fruitore, sono coinvolti, e a cui sono, nel senso più autentico, sottomessi. Questo accadere è, nel caso dell’ arte, la rappresentazione più autentica dell’ essere, una rappresentazione che Gadamer chiama la trasmutazione nella forma, la quale costituisce la vera e totale mediazione del reale o dell’essere .[6] L’immagine o la forma che scaturisce dall’ opera d’arte è l’autentica rappresentazione del reale non nel senso di una presunta oggettività, ma la rappresentazione o autorappresentazione libera del giuoco, in cui alla fine dell’ opera scaturisce sempre una nuova valenza dell’essere di ciò che viene rappresentato; una nuova valenza che costituisce appunto la conoscenza dell’opera d’arte, o il suo valore di verità.
3) La verità dell’opera d’arte e la non differenziazione estetica.
Questo valore di verità dell’opera d’arte, che permette una riabilitazione non solo dell’allegoria, ma anche dell’occasionale e del decorativo, e che conferisce all’ architettura il più alto posto tra le arti, poiché porta massimamente avanti quella mediazione totale dello spazio in cui l’opera d’arte si colloca, serve non solo a superare l’unilateralità della coscienza estetica (la differenziazione estetica, a cui viene contrapposta invece la non-differenziazione estetica tra il bello che risponde a determinati criteri, e il brutto che a essi non risponde) ma anche l’unilateralità della coscienza storica e di quella metodologica.
Se il giuoco costituisce il concetto ontologico del reale, questo vale non solo per l’essere della natura (in cui si parla del giuoco delle forze) e per l’essere del comportamento umano e dell’opera d’arte, ma altresì per l’essere storico dell’uomo; ovvero questo concetto ontologico ci permette una adeguata comprensione della storia, intesa non come un tutto ben concluso, qual esso era nella costruzione hegeliana, e neanche un tutto ideale che emergeva nella ricostruzione diltheyana, ma come un accadere continuamente aperto e non concluso, quale è appunto l’essere del giuoco, che è la matrice stessa dell’essere. È grazie a questo concetto quindi che si può proporre una comprensione del reale, o una ontologia necessaria ad ogni critica della metafisica di stampo oggettivistico, senza dover ricadere nello scetticismo e relativismo culturale; e, sempre per questo concetto, ci si apre una nuova concezione della conoscenza e della stessa coscienza storica, cioè d.i quella conoscenza propria dell’ esperienza ermeneutica. La coscienza storica che esperisce il reale è essa stessa immersa o partecipe del giuoco che esperisce, è essa stessa soggetta alle regole e agli effetti del giuoco stesso; questa coscienza che partecipa dell’accadere della storia, e non si può mai porre al di fuori di essa come coscienza oggettivante, viene chiamata appunto la coscienza storicamente determina~a, o anche la coscienza della determinazione storica (wirkungsgeschichtliches Bewusstsein); un termine che indica in tedesco non soltanto il fatto che la coscienza storica è esposta agli effetti storici che essa cerca di interpretare, ma anche il fatto che essa stessa agisce (wirkt) o ha degli effetti sulle opere o sui problemi interpretati nella stessa misura in cui viene da essi determinata o effettuata.
4) La coscienza storico-effettuale e la riabilitazione del pregiudizio-precomprensione.
Un’analisi dell’esperienza ermeneutica, cioè dell’interpretazione, è rimandata quindi all’ analisi dei presupposti della coscienza storicamente determinata; qui si aprono dei concetti propriamente nuovi, e a cui è legata anche la fama e la diffusione del pensiero di Gadamer. Il primo di questi presupposti, o della struttura della precomprensione (Vorverstàndnis), è quello della riabilitazione dei pregiudizi, che dal punto di vista conoscitivo è parallela a quella dell’occasionale e del decorativo nell’esperienza estetica. I pregiudizi non sono, come voleva 1’Illuminismo, soltanto il ricettacolo o il frutto dell’ignoranza e dell’oscurantismo dei tempi passati, ma rappresentano il punto di partenza dal quale ci muoviamo, ovvero le condizioni del nostro conoscere; essi costituiscono la storicità del nostro intendere. Questo comporta anche una riabilitazione dell’autorità e della tradizione storica, in particolare di quell’ autorità che ci si impone per la sua superiorità nel campo stesso della conoscenza e del giudizio critico; l’autorità non significa semplice accettazione, ma riconoscimento di una superiore conoscenza. Cos1 pure la tradizione ci si impone per la sua autorità, per quella superiorità che ci dimostra l’esemplarità del classico, con il suo valore altamente normativo, tale da costituire il concetto stesso di stile, O dello stile che rimane il fine di ogni opera autentica, pur se esso appartiene inequivocabilmente al passato.
5) Il significato ermeneutico della distanza temporale
Dalla stessa tradizione quale base del nostro accadere e intendere storico risulta anche un ulteriore presupposto del comprendere, e cioè il principio della distanza temporale. Il significato ermeneutico di questo principio è, da un punto di vista negativo, quello di rendere di per se stessa impossibile una pretesa comprensione del passato, dei testi e degli autori, tale da superare la comprensione che di sé ebbe l’autore stesso, come voleva l’ermeneutica di Schleiermacher: ogni comprensione di un testo e di un autore segue la situazione storica dell’interprete e la sua distanza temporale da ciò che viene interpretato, cosÌ che mai si potrà parlare di una conoscenza esaustiva e definitivamente adeguata dell’ autore e delle sue nascoste intenzioni. D’altra parte questa distanza temporale è un principio positivo del conoscere storico, perché supera le unilateralità e i limiti della situazione storica dell’ autore o del testo interpretato, apre il punto di vista dell’ interprete e permette nuove possibilità di conoscenza, nuove concrezioni e sviluppi di senso, presenti nell’opera dal punto di vista dell’interprete e della sua situazione storica, senza che si debba pretendere che lo siano state per l’autore stesso.
6) L’interpretazione come “fusione degli orizzonti” e il suo valore di verità.
La distanza temporale tra il testo e l’autore interpretato che appartengono al passato, e l’interpretare nella situazione presente, costituisce l’autentica dimensione dell’ ermeneutica: non per nulla qualcuno è arrivato anche a parlare di una ontologia di questo essere tra: essere tra passato e presente, tra ciò che è lontano ed estraneo e ciò che è vicino e familiare. Questa tensione che si rivela nell’interpretazione delle voci della tradizione, in un colloquio che è appunto l’essere nella tradizione, e il proseguire della tradizione stessa, è la situazione della distanza temporale; è questo essere situato dell’interpretazione che viene chiamato da Gadamer, sulla scia di Nietzsche e di Husserl, un orizzonte, in quanto è il punto in base al quale riusciamo a vedere e capire tanto il nostro passato quanto il nostro stesso presente. Poiché comunque è soltanto nel nostro presente orizzonte che possiamo essere situati, mentre il testo o l’autore interpretato appartengono alloro proprio orizzonte, l’opera dell’interpretazione o l’esperienza ermeneutica non potrà consistere che in una fusione degli orizzonti, cioè del nostro orizzonte presente e dell’ orizzonte passato in cui il testo e l’autore interpretati sono a loro volta situati. Questa fusione degli orizzonti rende comunque impossibile una completa immedesimazione nello spirito del tempo passato, una sua completa e oggettiva ricostruzione e quindi anche una sua esaustiva comprensione, per via appunto dell’incolmabile distanza tra il nostro orizzonte e quello del passato. Ma tutto questo, più che essere un male, è il vero momento positivo dell’interpretazione. Noi crediamo che in tal modo venga arrecato un danno al testo interpretato, ma mentre in realtà quel che avviene è la vera e propria crescita del testo, la sua concrezione nel raporto con il presente, tramite il mondo dell’interprete ed il suo orizzonte. In questo accrescimento ontologico del testo e dei problemi in esso trattati tramite le domande che poniamo al testo consiste la verità dell’interpretazione.
La verità non è mai infatti l’adeguazione o la ricostruzione perfetta del testo, ma ciò che il testo ci svela del reale, e questo svelamento viene semplicemente accresciuto dalle domande che l’interpretazione pone al testo e le risposte che le risposte che l’interprete ottiene dal testo interpretato. Una ben misera cosa sarebbe infatti l’interpretazione se essa fosse limitata semplicemente alla ricostruzione filologica del testo; non si tratta di disprezzare la filologia, che è il primo momento del nostro con il testo, ma la semplice ricostruzione filalogica del testo non può essere mai l’essenziale dell’interpretazione, ovvero l’interpretazione essenziale. Certo, questioni filologiche delle ricostruzione del testo, infratesti, citazioni, doppi sensi della lettera, questioni lessicali, allegorie e metafore di cui abbiamo seguito la storia nel precedente saggio sono certo legate all’interpretazione del senso, che è l’interpretazione essenziale, ma queste questioni sono soltanto il momento preliminare della domanda, o delle domande che noi poniamo al testo e dal quale ci attendiamo le risposte che ci interessano, quelle per cui leggiamo il senso stesso. Lo stesso vale per l’opera d’arte, e per questo l’opera d’arte resta sempre il punto di partenza dell’ermeneutica. Ma lo stesso vale per l’interetazione dei testi giuridici, così come di quelli teologici e filosofici. La loro appropriazione tramite l’interpretazione è la riappropriazione dell’inera nostra tradizione culturale, e tutto questo avviene in vista delle domande che ci poniamo nel nostro presente per il nostro futuro. Qui è come se sentissimo parlare direttamente Nietzsche, il Nietzsche della Seconda Inattuale, Sull’utilità e il danno della istoria per la vita: Solo come architetti del vostro futuro potete studiare il vostro passato.
E qui che Gadamer deve distaccarsi non solo da Schleiermacher e da Dilthey ma anche da Hegel, il quale con la sua Fenomenologia dello spirito aveva rappresentato il vero modello della riappropriazione della nostra tradizione spirituale; la situazione della distanza temporale non può, neanche come fusione degli orizzonti, essere superata o trascesa in una completa riappropriazione dell’ alterità, neanche nella dialettica che più gli si avvicina, e che termina pero m un sapere di se nell esser altro, da parte dello spirito assoluto, che si chiama hegelianamente sapere assoluto. Certo Hegel non parla di interpretazione, ma della riflessione in sé dello spirito, cioè di quella riflessione sul nostro mondo presente, sulla nostra epoca e tradizione culturale che porta con sé tutto il proprio passato; ma il risultato di questa riflessione sul principio proprio del nostro presente, cioè sulla effettiva realizzazione della libertà dello spirito, che costituisce il fine della storia, non è che la elaborazione di un nuovo principio, quello di un mondo futuro.
7) Il circolo ermeneutico della precomprensione e pregiudizio
Al modello hegeliano della riflessione come riappropriazione del passato viene però contrapposto il modello heideggeriano del comprendere, ben noto come circolo ermeneutico, e da Gadamer ripresentato in una sua forma peculiare, all’interno della propria «fusione degli orizzonti». La struttura della precomprensione, ovvero i presupposti o pregiudizi che formano le condizioni del nostro intendere, sono una specie di anticipazione del conoscere, poiché li portiamo con noi prima dell’effettiva conoscenza; essi appartengono infatti al nostro orizzonte conoscitivo e guidano la conoscenza stessa. Questa struttura della precomprensione in quanto principio attivo e reale del conoscere viene chiamato da Gadamer anche l’anticipazione della perfezione, o della completezza della conoscenza stessa: questa è infatti guidata da questa intenzione della piena o perfetta comprensibne del passato a cui si rivolge, sia esso testo, o autore, o epoca. I reali pregiudizi del nostro intendere possono di fatto essere messi in crisi solo in questa volontà di completa conoscenza; solo nell’effettivo incontro con il testo, o con le voci del passato, cioè solo nell’effettiva esperienza ermeneutica che presuppone questa piena volontà di adeguazione e di comprensione, possono essere messi in crisi i pregiudizi che vengono portati con il comprendere, e può rivelarsi la differenza tra veri e falsi pregiudizi. Il circolo ermeneutico non consiste in nient’ altro che in questo: poiché la struttura della precomprensione e l’anticipazione della perfezione, cioè della conoscenza veramente adeguata ci costringono, nell’ effettivo lavoro ermeneutico, a cambiare i pregiudizi stessi, ovvero nella confrontazione con pregiudizi diversi, o con le diverse pre-comprensioni che sono sottese ai testi che incontriamo, sia che essi appartengano al nostro passato, sia che appartengano ad altre culture, l’interpretazione è costretta a ritornare sui propri pregiudizi, dai quali si accorge di essere stata all’inizio guidata, sia per confermarli, sia per negarli o toglierli; ed è in questo ritornare su di sé che si dimostra la forza reale del circolo ermeneutico, o dell’anticipazione che l’interpretazione porta con sé nell’incontro con i testi. Il circolo non è un circolo vizioso, viziato cioè dai presupposti da cui era partito, quando l’interpretazione effettivamente funziona, o è quella seria interpretazione che non si sovrappone semplicmente al testo, o vi sovrappone i propri pregiudizi e la propria prcomprensione, poiché l’autentico incontro con l’alterità dell’altro, del testo che appartiene ad un mondo altrui, non è tanto la scoperta dei pregiudizi del mondo interpretato, ma piuttosto dei propri pregiudizi, nella confrontazione con i pregiudizi altrui. Tutto è pregiudizio: ecco quello che scopriamo, e con questo i nostri pregiudizi stessi vengono messi in discussione. In questa scoperta ritorniamo sui nostri pregiudizi e sulla nostra precomprensione, e questo apre il nostro orizzonte nel momento in cui si fonde con l’orizzonte altrui e ci lascia scoprire la ristrezza dell’orizzonte dal quale eravamo partiti, e muta il nostro pregiudizio in una nuva comprensione. Il nostro pregiudizio non rimane più tale nel momento in cui vi ritorniamo, e non possiamo perciò dire che la conclusione a cui arriviamo nella nostra interpretazione è frutto del nostro pregiudizio, e che ci muoviamo pertanto in un cercolo vizioso. Gadamer si richiama in questo a Heidegger: il problema non è quello di evitare il circolo ermeneutico, ma del come ci muoviamo in esso, e cioè del muoverci in esso in senso autentico; questa autenticità è data dal modo in cui riusciamo a metterci effettivamente in contatto con il punto di vista altrui, in modo da abbandonare i nostri pregiudizi e da acquistare comprensione.
8) Il problema della applicazione.
In fondo, tutto questo vuol dire che i pregiudizi della nostra comprensione possono essere giudicati solo tramite l’applicazione dei pregiudizi stessi. Il problema dell’ applicazione è in realtà un autentico problema ermeneutico; con ciò non si intende certo che un determinato metodo, o delle regole di questo metodo debbano essere applicate all’ esegesi dei testi, siano essi teologici, giuridici, letterari, storici ecc., ma che noi stessi dobbiamo applicarci alla lettura di un testo in modo tale da confrontarci da un lato con il suo proprio tempo, con i suoi propri problemi, e con tutta la sua tradizione, di cui è parte integrante, e dall’ altro con il nostro tempo. Questo tema tocca dal punto di vista giuridico il problema della applicazione del tresto giuridico, di cui non si può negare che non appartenga al proprio tempo, ovvero al tempo in cui è stato scritto e il diritto è stato posto, fissato. Nel momento in cui però il diritto è stato posto,e fissato nel testo giuridico (oggi diciamo: è stato pubblicato) il diritto acquisisce una sua cogenza ed universalità; ma questa sua validità universale deve poi confrontarsi la l’infinita particolarità e peculiarità dei casi; mai un caso è l’esatto caso della legge emanata, poiché nella molteplicità dei rapporti in cui il caso reale si trova intrecciato difficilmente riusciamo ad applicare una legge universale di cui esso è il caso, soprattutto perché questi casi sono determinati dallo scorrere del tempo e dallo stabilirsi di nuovi rapporti interprersonali e sociali che finiscono con l’allotanarsi dall’epoca in cui la legge era stata emanata. Come applicare dunque l’universalità della legge, di cui abbiamo sempre una precomprensione nel nostro tempo, al caso particolare?
Questo è sempre il problema dell’applicazione della legge, che appartiene a tempi passati, e tocca il nostro tempo presente e i nostri problemi: il problema è sempre non quello di un’impossibile ricostruzione oggettiva dello spirito della legge emanata in un tempo passato, ma di una confrontazione con il passato più esaustiva possibile, che implica appunto la coscienza della distanza temporale da un lato, e dell’ appartenenza alla comune tradizione dall’altro. Questa confrontazione con i testi del passato è il senso dell’ applicazione, che era considerata il terzo dei momenti della pratica ermeneutica, dopo il comprendere (verstehen), e l’interpretare, o l’esporre (auslegen).
L’ermeneutica giuridica, che presenta nella maniera più esemplare il problema dell’applicazione (Anwendung), quello della legge passata al tempo presente, rivela quale sia il senso più autentico anche dell’ ermeneutica storica e di quella teologica: quello di una concretizzazione o di una crescita di senso del passato, confrontato con il presente. Ciò viene sostenuto dal Gadamer in polemica con il Betti a proposito dell’ ermeneutica giuridica, e con lo Schleiermacher e il Dilthey per quella teologica e quella storica. In particolare rispetto all’ ermeneutica teologica si fa valere il principio che il testo sacro non è né un semplice oggetto della filologia, come gli altri testi letterari o le fonti storiche e storiografiche, poiché la sua interpretazione è sempre guidata da quel rapporto particolare a esso che è la fede e la sua tradizione, né un oggetto puramente trascendente che non possa ammettere una concretizzazione di senso quando parli al nostro mondo o venga confrontato con il nostro mondo.
9) Il linguaggio come filo conduttore dell’esperienza ermeneutica.
Dopo l’analisi della coscienza storicamente determinata, o storicamente effettiva, resta ancora da parlare del medio in cui si dispiega l’esperienza ermeneutica; questo medio, che è al tempo stesso il luogo originario da cui si diparte, è il linguaggio. Gadamer parla in proposito di un’autentica svolta ontologica dell’ ermeneutica sul filo conduttore dellinguaggio. Questa può essere riassunta nel motto da lui spesso citato: l’essere di tutto ciò che può essere compreso è il linguaggio .[7] Il linguaggio subentra perciò al concetto hegeliano dello Spirito, potremmo anche dire dello Spirito assoluto. Questo era inteso fondamentalmente come l’assoluta autocomprensione del reale come autocoscienza assoluta; di contro a questo concetto limite, che rappresentava anche il principio della storicità e insieme il fine ultimo della storia, si presenta ora il linguaggio quale essere della coscienza storicamente effettiva, poiché ogni comprensione e interpretazione avviene nel linguaggio. Esso è anche l’essere di ciò che può essere compreso, cioè di ciò che è rilevante ai fini dell’ accadere storico, ovvero di tutto ciò che entra a far parte della nostra tradizione. In fondo esso è anche il medio di tutto il nostro essere sociale, poiché questo si costituisce, come già Aristotele ci aveva anticipato all’inizio della sua Politica, sulla base de1 linguaggio che, rispetto alle sensazioni degli animali e al loro modo di esprimersi, permette in più di comunicare il proprio punto di vista sul giusto e sull’ingiusto. Ricollegandosi al presupposto ontologico da cui era partito per la comprensione del reale, messo in luce dall’ esperienza estetica, e cioè il concetto di giuoco, Gadamer può infine affermare che il linguaggio è il gioco in cui tutti giochiamo [8], con tutto l’insieme dei nostri interessi, dei nostri contrasti e delle nostre aspettative, seguendo il principio ultimo del comprendere, nel nostro essere aperti al continuo scambio di domanda e risposta. E qui che Gadamer pensa di raggiungere Wittgenstein, e si appella ai suoi «giuochi linguistici» che hanno per base il linguaggio naturale e i reali rapporti di interazione in cui essi hanno luogo [9]; un Wittgenstein che è naturalmente ben lontano da quel suo primo periodo in cui, nel Tractatus, pensava di poter costruire un linguaggio logicamente perfetto. E nel linguaggio naturale, che si sviluppa oconcretizza (cumcrescit) storicamente, che Gadamer vede un rispecchiatmento dei reali rapporti della vita.
10) L’universalità del problema ermeneutico.
Questa struttura speculativa del linguaggio, insieme al suo essere il medio autentico del comprendere e il luogo dell’ esperienza ermeneutica che si svolge come continuo giuoco di domanda e di risposta, costituisce per Gadamer la ragione dell’universalità del problema ermeneutico, o la portata universale dell’ermeneutica. Non è soltanto l’esperienza dell’arte, o quella della tradizione culturale, storica e religiosa a dover essere riflettuta e mediata in quel dialogo con il passato, nel gioco di domanda e risposta che costituisce l’esperienza ermeneutica del comprendere; sono anche i reali rapporti della vita, di potere e di dipendenza, di signoria e servitù, a dover essere oggetto della riflessione ermeneutica, così come anche gli stessi risultati della conoscenza scientifica, con i loro problemi dello sfruttamento tecnologico della natura, e della loro legittimità. Come nella critica della metafisica e nel riappropriamento della tradizione filosofica Gadamer non vedeva altro che la riacquisizione delle questioni originarie del pensiero, a cui anche il nostro tempo e il nostro pensare deve tentare di dare nuove risposte, così anche le questioni del nostro essere sociale e della stessa conoscenza scientifica ci pongono di fronte a questa necessità di interrogarci, nel nostro presente e nella nostra situazione storica, sul senso di ciò che viene conosciuto; un senso che viene appunto mediato e riflesso nel linguaggio, e precisamente nel linguaggio naturale che è quello della nostra tradizione, a cui tutti i problemi filosofici, o tutti i problemi di un sapere che non sia quello tecnologico, alla fine rimandano. Così come il principio ultimo della posizione, se non vogliamo dire della soluzione dei problemi, è quello di accettare il principio dialogico del comprendere, che è anche il principio pratico del rispetto dell’ altro, e di un consenso di base che permette il dialogo, così pure il giuoco di domanda e risposta non è niente di meno che la stessa struttura della dialettica, la comprensione di sé nell’esser altro. Gadamer può perciò rispetto a Hegel concludere con il motto che la dialettica deve essere ripresa nell’ermeneutica [10], così come la mediazione nel sapere assoluto deve essere ricondotta alla finitezza della coscienza storicamente determinata, o storicamente effettiva.
L’enorme successo avuto dal pensiero di Gadamer ha fatto sì che i suoi lineamenti di un’ermeneutica filosofica (come suonava appunto il sottotitolo di Wahrheit und Methode, che era stato pensato come titolo originario dell’opera) divenissero i lineamenti di una vera e propria posizione filosofica, ovvero che l’ermeneutica fosse considerata non più come una disciplina filosofica, come p. es. la gnoseologia, la logica, ecc., ma come una vera e propria filosofia. Certo per Gadamer l’ermeneutica era originariamente non un metodo, ma un modo di lavorare; la coscienza di questo modo di lavorare però divenne poi, come abbiamo sentito dire da lui stesso, una vera e propria posizione filosofica; questo vuol dire che invece di un’ermeneutica filosofica abbiamo una filosofia ermeneutica. In effetti Gadamer ci ha lasciato, oltre la sua opera principale, una quantità enorme di interpretazioni di testi di filosofia antica, di poesia, di pittura, di letteratura (note soprattutto sono le sue interpretazioni di Platone, di Hölderlin, di Paul Celan, di Goethe, di Bach ecc.); ma man mano che apparivano o venivano raccolte in volumi tutte queste interpretazioni, sotto il titolo di Scritti minori, di cui abbiamo traduzioni italiane (Ermeneutica e metodica universale, Marietti, Torino 1972; La dialettica di Hegel, Marietti, Torino 1973; Studi platonici, 2 volI., Marietti, Genova 1983-1984); tutto questo è ancora ermeneutica filosofica, ma con questi lavori cresceva anche la coscienza che si avesse a che fare effettivamente con un nuovo modo di far filosofia, cioè che queste interpretazioni, in particolare dei testi filosofici, fossero realmente delle risposte ai rispettivi problemi, ma che non si avesse comunque a che fare con una filosofia della filosofia com pretendeva Dilthey.
All’ ermeneutica in quanto filosofia venivano mosse pertanto le prime obiezioni; due di queste sono degne di nota. La prima obiezione, che viene mossa da varie parti e in particolar modo da teologi è questa: se l’interpretazione è il giuoco continuamente aperto di domanda e risposta, e nessuna risposta può, per la finitezza della nostra coscienza, mai essere ritenuta la definitiva, non rischia questa filosofia della finitezza di cadere in un completo relativismo, o in quella posizione che Hegel chiama la «cattiva infinità», cioè il continuo essere rimandati al di là del limite posto, senza arrivare mai ad alcuna conclusione?
A questa obiezione Gadamer così risponde nella sua tarda autobiografia: «La filosofia ‘ermeneutica’ si comprende non come una ‘posizione assoluta’, ma come un cammino dell’ esperienza. Essa consiste nel fatto che non vi è nessun principio superiore a quello del mantenersi aperti al dialogo. Questo significa però riconoscere la possibile ragione, anzi la superiorità del partner del dialogo, in via preliminare. È forse troppo poco? A me sembra una specie di onestà che si può pretendere solo da un professore di filosofia – che però da lui si dovrebbe pretendere» [11].
Anche questa obiezione però non può essere facilmente messa da parte. Essa tocca il problema fondamentale dell’ermeneutica che vuole presentarsi come filosofia e non semplicemente come metodo tradizionale dell’ interpretazione, soprattutto se questo doveva essere inteso nel senso del metodo di Galilei per le scienze della natura, inteso come la formulazione di ipotesi e della ricerca della loro convalida tramite il calcolo e l’esperimento, e di quello cartesiano, su di esso ricalcato, consistente nella ricerca della verità dei problemi posti partendo da un principio assolutamente certo. Gadamer rifiuta esplicitamente di intendere l’ermeneutica, in quanto arte del comprendere, come un metodo della interpretazione dei testi, intendendola piuttosto come un modo di far filosofia: non una semplice ermeneutica filosofica, cioè un modo di interpretare i testi filosofici, ma come una filosofia ermeneutica, e cioè come un modo di affrontare i problemi filosofici e di trovare le risposte fondamentali seguendo il metodo del domandare e del rispondere, ovvero il modello del dialogo interpersonale, applicandolo alla prassi di vita nel senso più universale, e cioè all’arte, al vivere civile, alla storia nel suo complesso, e infine ai problemi che l’uomo pone a se stesso sul senso della vita e di tutto l’essere in generale, magari intendendolo principalmente come essere nel mondo. I testi della filosofia e della letteratura, della storia e delle opere d’arte, sono visti come altrettante risposte a questi problemi che l’uomo si è dato e che costituiscono quella realtà dello spirito storico oltre la quale non possiamo uscire e da cui non possiamo prescindere; l’uomo non può uscire da se stesso, cioè dal proprio essere storico. Da questo essere storico nascono le domande che l’uomo pone a se stesso, che trovano la loro particolare esplicitazione e acutezza nella riflessione filosofica. Questa riflessione in se stesso o su se stesso dello spirito storico è la riflessione ermeneutica. Per questo la riflessione filosofica è vista fondamentalmente come riflessione ermeneutica, o come interpretazione, quando parte dai testi da un lato, cioè dalla parola del passato storico, e dal dialogo vivente dall’altro. Il filo conduttore di questa riflessione o il binario su cui si muove è il linguaggio, e il motore che spinge in avanti la riflessione in quanto interpretazione è la phronesis, cioè non seplicemente la ragione, il Logos universale, a cui il linguaggio è in fondo irriducibile, ma il dialogo, che come il linguaggio altro non è che il voler guadagnare o ricostituire la propria identità con l’altro, E’ ciò che Humboldt ha visto come l’autentica essenza del linguaggio, la universale comprensione; perché possiamo dire di comprendere il significato di una parola solo quando vediamo che l’altro intende con questa ciò che intendiamo noi. E’ questa la autentica identità nella differenza. Gadamer aggiunse, in un colloquio con Quine: comprendiamo un enunciato solo quando lo comprendiamo come la risposta ad una domanda che noi stessi ci eravamo posti. A questo possiamo dire che si ricolleghi ciò che i greci, in particolare Aristiotele, chiamano la phronesis, la base di ogni agire pratico: che ha come base il consigliarsi, e poi la syggnome, il mutuo comprendersi senza invidia, e la eubolia, la giusta decisione in vista del bene. Questo è l’autentica interpretazione, e su questa base l’ermeneutica, l’arte del comprendere, diviene filosofia ermeneutica, non solo l’interpretazione dei testi, ma della stessa filosofia come filosofia pratica, o filosofia del sapere pratico.
La seconda obiezione, che partiva inizialmente dallo stesso Heidegger, è che la filosofia ermeneutica fosse da considerare una «ricaduta nella sfera della coscienza», da lui superata nella concezione dell’ esserci, e quindi una ricaduta nell’idealismo, o nel neokantismo di Marburgo [12]. L’obiezione veniva rafforzata, sviluppata e presentata pubblicamente da Habermas, che non esitava a rimproverargli un idealismo linguistico, o idealismo della linguisticità [13]; se la linguisticità è per Gadamer il nostro essere linguaggio (ciò che noi latini chiameremmo la parola), ancor più originario della lingua, Habermas opponeva che questa linguisticità non può da sola dar ragione, o aver ragione, dei reali rapporti di signoria e servitù, del lavoro e dell’oppressione sociale. Ma Gadamer poteva sempre ribattere ad Heidegger che la coscienza storicamente effettiva è più essere che coscienza [14]; e ad Habermas che nessun rapporto sociale, nessuna nuova società possibile, reale o immaginaria, può mai essere costituita altrimenti che sulla base del libero consenso, della libera intesa, cioè del principio dialogico, che è anche quel consenso di base che deve essere posto come principio regolativo di ogni lotta sociale. Poiché la nostra linguisticità, il nostro essere linguaggio, è la base dello stesso essere sociale, si può affermare che l’essere di tutto ciò che può essere compreso è linguaggio, o che il linguaggio è l’essere della nostra coscienza storica.
[1] Cfr. la nuova edizione delle opere di H.G.Gadamer, Gesammelte Werke, l.C.B. Mohr (PaU! Siebeck), Tiibingen, voI. 2°, 1986, che contiene alle pp. 479-94 la Selbstdarstellung, o l’autoesposizione del proprio pensiero e sviluppo intellettuale; il passo cito è a pago 484. Questa autobiografia intellettuale, molto importante, non è da confondere con l’altra vera e propria autobiografia, di carattere propriamente storico, tradotta in italiano con il titolo Maestri e compagni sul cammino del pensiero, Morcelliana, Brescia 1980. Essa rappresenta invece la più completa sintesi del suo pensiero, e la meglio riuscita; perciò ci atterremo a essa per la nostra esposizione, che è stata da noi tradotta in italiano, cfr. H.G.Gadamer, Verità e metodo 2, Bompiani, Milano 1992, p.
[2] Cfr. Ibid., p. 485, e anche: Il problema della coscienza storica, Guida, Napoli 1969, cap. IV: Il problema ermeneutico e l’etica di Aristotele.
[3] Cfr. Gesammelte Werke, Bd. 2°, p. 502, cioè la cito esposizione.
[4] Ibid., p. 503; si tratta di una tesi che ribalta esattamente la posizione heideggeriana, e che non era stata mai apertamente esposta prima di questo scritto.
[5] Ibid., p. 492; poco più avanti, a p. 494, Gadamer mette in guardia dallo strapazzare, in maniera metodica o meno, il termine ermeneutica: «Molti hanno visto e vedono in questa filosofia ermeneutica una rinuncia alla razionalità metodica. Molti altri, in modo particolare da quando l’ermeneutica è divenuta una parola di moda, ed ogni qualsiasi ‘interpretazionÈ si vorrebbe chiamare ermeneutica, strapazzano al contrario la parola, e la cosa per la quale sono ricorso a questa parola, vedendo in essa una nuova dottrina del metodo, con la quale legittimare in verità la mancanza di chiarezza in fatto di metodo, o una copertura ideologica» .
[6] Per questa e per le prossime citazioni terminologiehe, cfr. la parte centrale di Verità e Metodo.
[7] Cfr. Verità e Metodo, trad. it. a cura di G. Vattimo, p. 542. Questa affermazione viene poi più volte ripetuta e citata da Gadamer, per chiarirla e difenderla, come vedremo, nei confronti dei suoi critici.
[8] Anche questa affermazione è centrale per il pensiero di Gadamer; e si trova nel saggio Retorica, ermeneutica e critica dell’ideologia, variamente ristampato; cfr. Ges. Werke cit., voI. 2, p. 243, ed in trad. it. in AA.VV., Ermeneutica e critica dell’ideologia, «Giornale di teologia» (117), Queriniana, Brescia 1979, p.85.
[9] lbid., e Ges. Werke cit., voI. 2, p. 507.
[10] Cfr. La dialettica di Hegel, a cura di R. Dottori, Marietti, Torino 1973, p. 126.
[11] Cfr. Ges. Werke cit., voI. 2, p. 505
[12] Ivi, p. 165.
[13] Cfr. Ermeneutica e critica dell’ideologia cit., p. 69.
[14] Ivi, p. 90.
Foto: “Hans-georg-gadamer” by Christian Humanist – http://www.christianhumanist.org/wp-content/uploads/2013/07/hans-georg-gadamer.jpg. Licensed under CC0 via Wikimedia Commons – https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Hans-georg-gadamer.jpg#/media/File:Hans-georg-gadamer.jpg