di Alfredo Luzi
Discorsi all’osteria (Il Lavoro Editoriale, Ancona 1999 ) è il titolo che abbiamo voluto dare a questa raccolta di racconti di argomento marchigiano, perché condensa, nel riferimento all’antica abitudine di lunghe chiacchierate davanti ad un bicchiere di vino, l’attitudine psicologica di Bigiaretti ad una narrazione che coinvolga direttamente il lettore, quasi che la scrittura dovesse mantenere integre le specificità emotive e spaziali di un dialogo che si dipana tra amici attorno ad un tavolino, guardandosi negli occhi.
La narrazione orale peraltro aveva, nella società contadina marchigiana, la funzione importante, a livello antropologico-culturale, di immettere nel tempo sempre uguale dell’esistenza, in una realtà percepita come immutabile, la dimensione del fantastico e del diverso, le tracce del mutamento .
Fedele a questo rito comunicazionale, Bigiaretti racconta ai suoi lettori storie di personaggi che a loro volta raccontano ad un pubblico fatto di familiari, amici, compaesani, amanti. Il discorso dell’autore si dissemina per proiezione e dilatazione in una miriade di altri discorsi, creando un reticolato narrativo che dinamizza la linearità e la fluidità dello stile.
Nel volume si alternano racconti in terza persona e in prima persona, nel tempo del presente o del passato, con una costante strategia: attraverso il racconto di qualcuno, interprete reale o fittizio, l’esperienza prende forma e la parola assume un ruolo cognitivo.
Il testo omonimo che dà il titolo alla raccolta è esemplare del desiderio bigiarettiano di coinvolgimento dell’altro nel tessere una storia, di un bisogno quasi fisico di ascolto che trasuda dalla pagina. Il vecchio, protagonista, “tra sé si rammaricava che non gli lasciassero insinuare tra quelli altrui un proprio discorso; che secondo lui era da ascoltare” e “gli sarebbe piaciuto che gli altri, quei cinque giovani che sedevano con lui attorno a un tavolo d’osteria, lo avessero ascoltato con un po’ d’attenzione, invece di accalorarsi in certi loro discorsi”; “se gli avessero dato ascolto avrebbe raccontato un episodio delle sua vita che proprio ora, dopo tanti anni da che era accaduto,gli tornava nitidamente alla memoria”.Di fatto la narrazione si regge su un gioco ininterrotto tra aspirazione ed invito all’ascolto (“ascoltatemi,giovanotti”; “raccontateci qualche cosa” ) e paura per l’eventuale verità contenuta nelle parole degli altri ( “tornò ad inquietarsi intorno ai discorsi di quello con la maglia”; “il discorso di quel giovane era stato abbastanza chiaro e tutti l’avevano inteso” ).
Questa tecnica narrativa è adottata anche in testi di breve durata, come In fondo al pozzo , il bandito , Mezz’ora d’attesa .
In Leopolda , il racconto di maggior ampiezza, la tematica della esposizione orale svolge una funzione di cerniera tra i nuclei che costituiscono il tessuto connettivo della trama. Raccontare, è per Paolo,giovane cittadino che torna dopo anni al paese , Matelica, e ritrova il suo primo amore, un modo di coinvolgere gli altri nella motivazione del ritorno e nella ricostruzione memoriale: quando tiene circolo, al caffè, egli si sente la gloria del paese, proprio come il soldatino tornato in licenza di Paese con soldati che, con orgoglio, parla della vita di città ai suoi compaesani. Al racconto di Paolo fa da contrappunto modulare quello della zia Assunta che utilizza la tradizione conviviale marchigiana per esercitare il suo piacere al pettegolezzo venato di bieco perbenismo (“Il nome di Irma venne pronunciato alla fine del pranzo,che fu come sempre lungo e sostanzioso. Prima si era parlato di altri parenti, di amici:chi partito, chi morto; s’era fatto l’inventario delle sfortune e delle fortune paesane. La zia Assunta ne sapeva, su tutta la popolazione di Metelia, assai più che l’Anagrafe; per ciascuno che veniva nominato – morto o vivo – ella denunciava virtù e difetti,condannava e assolveva con candida fermezza” ).
L’atto del narrare, che talvolta, nei personaggi di Bigiaretti, assume un carattere compulsivo, trova la sua ragione iniziale nella condizione socio-economica di questi:in genere, essi sono degli emigrati, costretti a lasciare la propria terra per cercare nelle grandi città d’Italia o d’Europa una condizione di vita più dignitosa. Sul piano psicologico la lontananza favorisce allora la percezione del presente come esilio e la cristallizzazione del ricordo come pegno di un ritorno alle origini. Tornare al paese equivale, simbolicamente, a ritrovare la propria identità, colmare la frattura tra un prima e un poi che ha spezzato la continuità del rapporto tra soggetto e realtà, tra coscienza e paesaggio, tra individuo e comunità familiare. E’ il rito atteso e compiuto da Francesco Baratti, uno dei personaggi di Leopolda , che “da quasi mezzo secolo, cioè da quando ha lasciato il suo paese….vi ritorna ogni anno,puntualmente, nella ricorrenza del Giorno dei Morti. E’ assolutamente necessario – tale è l’espressione che adopera nella circostanza – (….) << E’ assolutamente necessario che faccia una scappata al paese….”.
Da questo sostrato nasce la traccia tematica del viaggio,presente in Leopolda ,ne L’oscuramento , nel breve testo di In fondo al pozzo . Ancora in Leopolda , la prospettiva del viaggio in treno verso Matelica unisce padre e figlio in un legame di complicità (“Subito padre e figlio incominciarono a parlare del viaggio, e mentre si sentivano uniti, uguali nella smania di rivedere Metelia, nacque tra loro una specie di disputa ”). Se da una parte, però, per il padre, il piacere profondo nel rivedere i luoghi in cui è immerso il passato è avallato dalla esattezza terminologica dei toponimi (“il viaggio fu per entrambi in tutto simile ad altri: per Francesco una consuetudine così frequente che quasi non se ne avvedeva. Era per lui un dormire agitato da cima a fondo, con risvegli e soprassalti cui si potevano dare i nomi delle stazioni di Orte e di Foligno, e di quella, appena visibile, di Fossato di Vico” ), dall’altra,per il figlio, il rapporto disforico con il paese in cui egli riassopora emozioni negative dimenticate giustifica il desiderio insorgente di fuggire di nuovo ( “Era subentrato nell’animo di Paolo un sentimento alquanto impreciso di disagio e di colpa; la voglia, già, di ripartire”).
Nell’intera opera letteraria di Bigiaretti è l’idea della dislocazione spaziale o del transito nel tempo ad attivare la memoria, prezioso scrigno di conoscenza da parte dell’uomo perché, grazie ad essa, si realizza l’unica possibilità di interpretazione del mondo e di acquisizione di senso dell’esperienza. La dinamica narrativa segue così l’andamento del flusso memoriale e l’attenzione alla realtà è spesso attivata da un confronto tra passato e presente. Paolo di Leopolda cancella dai suoi “ricordi attivi” la figura della giovane donna che lo ha amato, Giovanni di In fondo al pozzo s’affida “al ricordo di se stesso ragazzo”, a Gino, in Mezz’ora d’attesa ,”piace di solito abbandonarsi alla corrente pigra e volubile del ricordo”, l’io narrante del Bandito mette a fuoco la figura del suo compagno di classe grazie al fatto che “ è una storia molto semplice del resto e non so perché si sia conficcata tanto profondamente nella mia memoria”. Talvolta è la visione rinnovata e differita del paesaggio interiorizzato a far scattare il congegno mnemonico ( vedi Leopolda : “In forma di immagini veloci, in <<dissolvenza>>, codesti ricordi e pensieri rinascevano nell’animo di Paolo, dopo otto anni di dimenticanza, mentre egli andava girando per il paese, accanto a suo padre”; e vedi Lo scoglio : “ La spiaggia di V., poi, è piuttosto angusta e di fondo sassoso.Ma era sempre piaciuto al Morra il paesotto che le sta alle spalle e si restringe a ridosso di una serie di collinette ben coltivate; gli piaceva soprattutto il ricordo che ne aveva”).Per contrasto la mancanza del ricordo determina invece inquietudine, paura del vuoto, percezione del nulla, come avviene a Gino, in Mezz’ora d’attesa , che “si sente come se avesse dimenticato qualcosa e non riuscisse a ricordarsene”.
Tra spazio e tempo, tra visione e memoria, si colloca la differenza fenomenologica, l’intervallo che separa il momento esistenziale da quello gnomico. Il cammino è per luoghi noti, offuscati però dalla dimenticanza e dalla lontananza. Ma è sufficiente un viaggio di ritorno per ricucire il legame affettivo tra soggetto e oggetto ed avviare le procedure del riconoscimento. ”Riconoscere” è l’attività mentale più praticata dalle figure bigiarettiane, la parola chiave che percorre la trama di molti dei racconti qui raccolti 🙁 Leopolda :“riconobbe i tetti e i pioppi di Cerreto,la vetta aguzza del San Vicino, e finalmente l’ocra della facciata della stazione di Metelia e il grigio burocratico della tettoia”; “ Ma a Paolo sembrava invece di provare una viva soddisfazione nel ritrovarsi nuovamente, dopo parecchi anni,sull’antico Corso Mazzini, all’ora del passeggio. Egli vi scopriva, tra l’altro, una sorta di felicità fisica: una contentezza dello sguardo nel riconoscere immutati alcuni aspetti; un veder tutto, d’altronde, disegnarsi in proporzioni più piccole di quanto sembrasse nel ricordo, il che gli procurava, più che delusione, un senso quasi di affettuosa superiorità rispetto al paese”; L’oscuramento : “Quel viaggio era stato stimolato da un sentimento estremo, come di addio, e anche dal desiderio di sfogare il proprio animo, parlare con persone che giudicavano come lui i fatti che stavano accadendo, riconoscersi prima che la guerra li sparpagliasse”; Il bandito : “Ma io riconosco ugualmente la maggior parte di quei volti, seppure alcuni di essi non siano più legati a un nome rammentato o sentito pronunciare più tardi”).Il centro di questa focalizzazione a posteriori restano però le vie e la piazza di Matelica, luoghi privilegiati della nostalgia in Leopolda e della dilatazione memoriale in Più grande del vero .Lungo il corso della cittadina marchigiana Paolo compie il suo rito dell’eterno ritorno, anche linguistico, nel tentativo di chiudere nel distacco temporale delle dimenticanza una parentesi esistenziale ormai compiuta: ( Leopolda : “E aveva voglia di chiamare ad alta voce i passanti man mano che li riconosceva; aveva voglia persino di rientrare dentro il dialetto non suo, ma che gli nasceva spontaneo sul labbro. Voleva infine tener fede al proponimento che lo aveva deciso al viaggio: riconoscere bene il paese, la gente, gli amici di un tempo, lo stesso Elio. Vederli un’ultima volta e poi voltar loro le spalle, per sempre”).
Ricordare dunque non è, per Bigiaretti, mettere a fuoco razionalmente una situazione pregressa ma riassaporare un grumo di sensazioni sedimentate. Il riemergere del passato, della giovinezza ormai perduta, è affidato a proustiane ‘madeleines’ che con il loro concentrato di odori, sapori, colori, liberano la memoria involontaria e quasi sottolineano l’immutabilità dell’esperienza. Le prime pagine di Leopolda in cui lo scrittore ricostruisce le reazioni dei protagonisti mentre viaggiano verso Matelica testimoniano la sua amorosa memoria per immagini del paesaggio marchigiano:”Poi la sosta a Fabriano dove bisogna cambiare treno, nel freddo del primo mattino, e c’è tempo di fermarsi al buffet della stazione a bere un caffé di sapore antico, un sapore che padre e figlio riconoscono identico, mai ritrovato altrove. Attorno al banco, dove ristagna un odore d’anice, odore di provincia, sembrava a Paolo di ravvisare tra i passeggeri e i ferrovieri le stesse faccie che aveva visto l’ultima volta…….Paolo guardava avidamente la strada, le piante,le prime case, le persiane verdi balenanti sull’intonaco chiaro o sul rosso del mattone,il fontanile sulle mura. Provava, anch’esso più giovane di lui, un appetito enorme che gli faceva anticipare la delizia del caffellatte che tra poco avrebbe preso al <<Roma>> sulla piazza: il miglior locale cittadino……Il caffellatte e le ciambelle erano tali e quali quelli di una volta. Tale e quale, più tardi, la torta della Signora Assunta Baratti, sorella di Francesco; e lei stessa, decrepita e bambinesca,e la casa grande, conventuale e odorosa di mele”.
Bigiaretti intesse le sue storie in un reticolato cromatico-visivo che risulta complementare della dimensione olfattiva e gustativa. Appassionato di grafica e di pittura, egli stesso pittore, ha sentito talvolta il bisogno di utilizzare il segno iconico come supporto della parola scritta, nel tentativo di organizzare figuralmente lo spazio entro cui collocare o un profilo di un personaggio o una situazione narrativa complessa. Luce e buio acquistano così un valore metaforico, coincidendo la prima con l’armonia del rapporto tra sguardo e realtà, il secondo con lo spaesamento, l’alienazione del soggetto psicologico difronte ad un mondo chiuso nella sua opprimente necessità. La serenità di Giovanni, nel racconto In fondo al pozzo, determina il predominio del bianco (“Era mattino di buon’ora, mentre andava alla stazione, l’aria era fresca e il paesaggio tutto chiaro: lo stradale bianchissimo, bianchi i tronchi dei pioppi, chiaro il fogliame e il prato. Pareva facile essere buoni, fare contenta una vecchia madre, dedicarsi al lavoro con la coscienza sgombra di rimorsi” ), mentre la psicosi da guerra che assale Paolo, in L’oscuramento , trova il suo correlativo oggettivo nello “strano colore inchiostroso” che avvolge tutta la città (“Doveva aver percorso un altro viale, uguale al primo nell’oscurità, che lo aveva condotto in un’altra direzione. Adesso era veramente stanco, si sentiva sconfortato, incapace di dirigersi, gli pareva che il buio malignamente si facesse più fitto, un vento freddo cominciò ad agitare gli alberi. Paolo non scorgeva lumi davanti a sé: la notte era chiusa”).
In queste atmosfere che talora mantengono una forte impronta realistica, talora invece sfumano su tonalità surrealiste e fantastiche ( si pensi a un testo come L’oscuramento , in cui il processo d’esitazione nel lettore è portato al grado estremo o a In fondo al pozzo ), su sfondi ricchi di contrasti, di ombre e luminosità, si incidono i primi piani di figure femminili, Leopolda, Sara, Erminia, Angela, Fernanda, Maria Teresa, non privi però, in qualche caso, di un tocco caricaturale ( Leopolda : “Ora Leopolda era una ragazza di ventisette anni; il suo viso, largo all’altezza degli zigomi, e concluso precipitosamente sul mento aguzzo, come in molte donne della regione,era modellato a grandi piani; il naso e le labbra ben pronunciate, il pallore della pelle, cui dà risalto il nero liscio dei capelli, erano quali Paolo rammentava”; “ Gli occhi rotondi e inutilmente grandi esprimevano non la serena limpidezza che Paolo aveva sempre creduto di scorgere, ma soltanto una placida pigrizia animale”; Gli occhiali :”il viso di Maria Teresa era grazioso ma anche, scopersi, pieno di difetti: i pori della pelle erano spalancati, intorno agli occhi un lividore malsano, e alcuni peli ridicoli spuntavano all’angolo delle labbra dipinte malamente per tentare invano di correggere il loro vero disegno”).
La femminilità e la carica erotica vengono esaltate attraverso la scoperta del corpo, un tema che Bigiaretti tocca molto spesso anche nei suoi romanzi e che costituisce, ad esempio, l’asse portante della trama de La controfigura . In pagine pervase di elegante e controllato erotismo egli descrive attraverso l’insistenza ossessiva dello sguardo i processi di seduzione: (Leopolda :”Paolo la reggeva per i polpacci, perché il corpo di lei non si squilibrasse…..Paolo insomma doveva risalire molto lontano, avventurarsi nei cunicoli della memoria perché Leopolda gli diventasse figura carnale, suscitatrice di desideri……Leopolda lo guardava piena di ansietà. La parte più vistosa del suo corpo, il suo grande seno, cessando finalmente di essere statuario, si sollevava e si abbassava,nell’affanno di un interno tumulto.”;Mezz’ora d’attesa :”Ma poi ripensa alla felicità che lo aspetta e, guardando la macchia chiara del letto, nell’ombra, immagina il gran corpo bianco di lei, e trema di desiderio”; Lo scoglio :”egli poteva adesso contemplarla a suo agio e considerare l’agile floridezza di quel corpo che aveva già superato senza allontanarsene l’incertezza dell’adolescenza; stando Fernanda più in basso di lui e curva nello sforzo di salire, il suo seno si mostrava libero nella sua perfetta misura”).
Nella raffinata tecnica d’indagine psicologica dei personaggi Bigiaretti ha invece trasfuso la sua profonda conoscenza dei romanzieri moralisti francesi. Adottando spesso un processo di scambio tra condizione interiore e percezione ambientale ( A causa della pioggia : ”La stanchezza, e quel sentire se stesso cedere così miseramente, quasi ammollito anche dentro, nell’animo, dalla pioggia insistente” ) egli indaga nei meandri dell’animo umano, attento soprattutto alle connessioni occulte tra sensazione e sentimento, al gioco di specchi tra comportamento e passione. In particolare alcuni dei personaggi maschili che si incontrano in questi Discorsi all’osteria presentano delle linee di debolezza e ambiguità, oscillanti come sono tra menzogna e verità, timorosi del rimorso ma nello stesso tempo incapaci di liberarsi da una forma di reticenza sentimentale, restii nel guardarsi allo specchio perché sarebbero costretti a riconoscere “il sordo silenzio della coscienza”.
Il legame con l’autobiografia dell’autore s’avverte come un sigillo incastonato nella tramatura dei racconti in cui Libero gioca a confondere le carte tra realtà e finzione. Ci sono riferimenti alla professione di capomastro esercitata dal padre dello scrittore, all’emigrazione della famiglia a Roma, alle estati passate in vacanza a Matelica, alla passione per l’architettura e le arti visive, agli eventi resistenziali sui monti dell’Appenino marchigiano. Le coordinate spaziali oscillano tuttavia tra una topografia volutamente vaga, costituita da pseudonimi ( Metelia ), o da iniziali (M.,B.,V.) e precise localizzazioni ( Matelica, Roma, Cerreto, Fabriano, Fossato di Vico).
Ma ci sono soprattutto le Marche, nei continui rinvii al suo folklore, alle sue tradizioni gastronomiche ( il verdicchio, il vino cotto, il vin santo, le fave dei morti ), persino nella definizione bruciante dello spirito sarcastico dei suoi abitanti ( Leopolda : “Amici, dunque, nonostante codeste e altre più insidiose punzecchiate che si scambiavano; ma che marchigiani sarebbero stati, e di Metelia per giunta, se non lo avessero fatto ?”). In un caso la caratterizzazione regionale è affidata alla citazione, appena camuffata, di un topos leopardiano ( Discorsi all’osteria :”Come quando un allegro compagno se ne va all’improvviso e porta via con sé la gaiezza di tutti,il giorno festivo, dileguando, lasciava un senso di insoddisfazione e quasi di dispetto negli animi, sui quali pareva pesasse il rimorso di aver consumato malamente le ore di libertà” ).
Il gioco oppositivo tra Roma e Matelica, tra città e paese, tra paese e campagna è un topos costante nella narrativa bigiarettiana e in questa raccolta si presenta come una macrostruttura di riferimento, individuabile in Leopolda , La festa di Sant’Adriano, Più grande del vero, Paese con soldati , In fondo al pozzo , Il bandito . La tonalità regionalistica è sottolineata dall’innesto di una serie di considerazioni sulla “cantilena della parlata marchigiana” confrontata con “ i modi e il linguaggio romani”. In Leopolda , così come nella Festa di Sant’Adriano , la sfida tra il modello di vita cittadina e quello di provincia passa anche attraverso lo scontro linguistico (Leopolda : “Paolo porgeva l’orecchio con studiata attenzione alla voce cantilenante di Leopolda. L’accento paesano in lei sembrava esasperarsi, fino alla caricatura. Ella non usava espressioni dialettali – era una maestra dopotutto – ma pronunciava le parole italiane con la particolare cadenza marchigiana. Paolo aveva voglia di rifarle il verso. Ma anche ella, durante il pranzo, aveva ascoltato Paolo con attenzione critica. A un certo punto, difatti, ora Paolo se lo rammentava, ella aveva sottolineato una sua espressione: -Adesso parli proprio come un romanaccio.”). In altri racconti è invece sufficiente l’innesto di locuzioni tipiche del parlato per far acquisire al linguaggio bigiarettiano una venatura paesana.
I racconti rispecchiano a livello formale la concezione gnoseologica di Libero, fondata sul principio degli opposti come elemento dinamico della dialettica storica . Essi presentano una struttura ossimorica, confermata non solo a livello stilistico ( Leopolda :”quietamente commossa”; “lo respingeva e l’accoglieva”; Lo scoglio : “gli piaceva e insieme gli dispiaceva”; “si disprezzava e insieme si ammirava” ), ma anche a livello tematico. Il mito della giovinezza come nostalgia dell’età felice, presente in molti testi, è lentamente frantumato dalla consapevolezza della morte che attanaglia il pensiero dell’uomo, le speranze giovanili dei figli si scontrano con le delusioni dei genitori e si perdono nella conflittualità generazionale ( tema molto caro a Bigiaretti romanziere ), l’amore per una donna può deteriorarsi in disamore. I protagonisti di queste storie si dibattono tra stati d’animo contrastanti, rivelati dall’alternanza tra l’ansia ( “ansiosa attesa”,”ansioso affacciarsi”, “fanciulle ansiose d’amore”, “sguardo pieno d’ansia” ) e la pazienza ( “ Leopolda era paziente di natura”, “riprese mansueta”, “abbiate pazienza”, “calma ragazza”, “occorreva aver pazienza” ).
Nell’introduzione a Il mio Paese avevo parlato dell’ “atteggiamento ambivalente di Bigiaretti nei confronti del mondo, quel desiderio di collocarsi al centro della vivente contraddittorietà del reale, rivendicando il proprio diritto di interpretare i fatti, ma nel contempo di affidarsi alla prospettiva liberatoria dell’immaginario”. La stessa attitudine è individuabile in questi Discorsi all’ osteria . Ci sono pagine in cui prevale la tensione descrittiva degli eventi e degli oggetti, proiettata dunque all’esterno. In altre, in cui l’autore lascia briglia sciolta alla forza dell’immaginazione, domina un processo d’interiorizzazione della reattività psicologica del soggetto. Quanto Bigiaretti scrive negli Occhiali può essere preso a prestito per definire il suo stile , in equilibrio tra realismo e surrealismo :”Così tra la mia tendenza a eccedere con la fantasia e la sua quieta inclinazione a un ordine raziocinante, s’era stabilita una certa armonia”. Egli imposta la sua scrittura sul crinale del continuo movimento tra realtà e fantasia. Quando il peso del reale diviene intollerabile, per un momento può anche scattare il congegno compensativo del fantastico, della costruzione autonoma di immagini. Ma la moralità laica e la coscienza critica dell’autore renderanno infine onore al vero, che è sotteso nelle parole della letteratura : ( Gli occhiali : ” Adesso – dopo tanti anni – il mondo non mi piace più se lo guardo senza gli occhiali: non più vago e sfumato quale appariva ai miei occhi miopi di giovane, ma insipido, scolorito e inespressivo come una vecchia fotografia”) .