di Gabriella Almanza Ciotti
Le Journal de Voyage, diario del viaggio che Montaigne, passando attraverso la Svizzera e la Germania, compie in Italia tra il 1580 e il 1581, è unanimemente considerato il primo libro che inaugura un nuovo genere all’interno della grande letteratura di viaggio.
Si tratta di un testo che ha suscitato sempre molte perplessità dal punto di vista filologico a causa delle plurime vicende che lo riguardano: il manoscritto, acefalo, scoperto casualmente [1] dall’abate de Prunis nel castello di Montaigne nel 1770 circa, è stato subito dopo perso altrettanto casualmente e non si è mai più ritrovato. Le pagine a noi rimaste sono state sottoposte fin dall’inizio a pesanti interventi di trascrizione[2] e di interpretazione soprattutto per il fatto che erano state redatte parte in francese e parte in italiano
Tuttavia quello che vi leggiamo ancora oggi è talmente unico e coerente con la visione della vita del suo Autore e con l’idea del viaggio inteso come esperienza personale che non vi sono dubbi sulla sua autenticità: non si tratta solo di un grande affresco dei luoghi visitati ma di quale è lo stato d’animo del visitatore, dell’uomo Montaigne che si affida al suo modo spontaneo di pensare e alla libertà del suo essere, un affresco tracciato rapidamente e senza la minima attenzione alla forma, appunti presi nella fretta di un viaggio dove ritroviamo la traccia immediata delle impressioni subìte dalla presenza delle cose.
Nel Journal de Voyage Montaigne si rivela fin dall’inizio un ottimo viaggiatore: è caratterialmente un curioso, attirato dalla voglia di conoscere le cose, le genti con abitudini e modi di vivere diversi. Anche se viene da una ricca famiglia di magistrati della Francia del Sud, ed è stato per molti anni Consigliere al Parlamento dell’importante città di Bordeaux egli stesso, è sempre piuttosto accomodante; si lamenta raramente degli inevitabili disagi di quel lungo cammino, osserva tutto con estrema attenzione e lascia traccia scritta solo di quanto lo ha colpito.
Sa come i pregiudizi possono chiudere e bloccare il mondo in limiti assurdi ed è molto felice della propria libertà di scelta che si esprime anche materialmante nella variazione, a volte del tutto casuale, del percorso e del suo itinerario.
Montaigne, che all’inizio del 1580 ha dato alle stampe i due primi volumi degli Essais che lo hanno impegnato molto, ora viaggia per conoscere e costruire direttamente una critica fondata soprattutto sull’esperienza. Egli sembra trovarsi a suo agio ovunque; ama il viaggio per il piacere di scoprire e sperimentare le novità, è allegro e gioviale con tutti.
Purtroppo, in quello stesso anno, il suo compagno di viaggio più vicino è proprio il suo fisico che da qualche tempo lo fa enormemente soffrire a causa di una calcolosi ereditaria ed allora l’ A. si mette ad osservarlo, acquisendo un atteggiamento da medico di se stesso e prendendo accuratamente nota di tutte le sue reazioni, segnando con cura il progredire o la tregua del male tanto temuto che ha già condotto il padre ad una morte dolorosa e prematura.
Che il Journal non sia un’opera per il pubblico lo si vede subito: tutto è riferito all’ A. e al suo io; anche la scelta del viaggio non è stata casuale: un itinerario per la cura del corpo, ricercando la salutem per aquam, tra i bagni termali più famosi d’Europa, da Baden ai Bagni toscani di Lucca e di Montecatini, e perché no, un itinerario anche per la salute dell’anima nei luoghi simbolo più importanti del Cattolicesimo: la Roma dell’ apostolo Pietro e la Santa Casa di Loreto, il secondo luogo di pellegrinaggio più famoso in quel tempo[3].
Montaigne prende nota di ogni particolare mettendo, almeno apparentemente, tutto sullo stesso piano, dalle importanti domande sulla predestinazione che, ad esempio, rivolge a Zurigo ad un ministro calvinista[4] , a quello che beve, alla tipologia del cibo che trova nelle locande, al costo dei cavalli, per lo più noleggiati assieme ai vetturini per spostarsi da una parte all’altra, arriva persino a prender nota di quello che mangiano gli stessi cavalli e di quanto mangiano!
Un viaggiatore così attento ha saputo preparare con cura il suo unico e lungo viaggio che durerà in tutto ben diciassette mesi: ha scelto prima di tutto dei compagni gradevoli e con cui ha molta familiarità: il fratello più giovane Bertrand-Charles de Montaigne, suo cognato Bernard de Cazalis, altri due (o forse tre) giovani amici tra i quali Charles d’Estissac che sembra essere in grado di garantirgli a Roma anche l’incontro con il vecchio e severo Papa Gragorio XIII.
Non si può tuttavia dimenticare che Montaigne è anche un personaggio politico, un politico che esce da una Francia segnata dalla crudeltà delle diverse fasi della guerra religiosa che, nella seconda metà del XVI sec., oppone i cattolici agli ugonotti, un politico piuttosto vicino alla famiglia reale francese, alla regina madre, l’italiana Caterina dei Medici, vedova di Enrico II, ai suoi figli, soprattutto a Enrico III; un vero politico, e come tale accolto con tutti gli onori a Roma, capace anche di abbandonare immediatamente il suo secondo, gradevole, soggiorno romano per tornare subito in Francia dopo aver saputo di essere stato eletto sindaco della sua Bordeaux.
Nel suo bagaglio personale Montaigne ha, con ogni probabilità, già fatto inserire una tavola votiva da lasciare appesa all’interno della Santa Casa di Loreto alla quale, e da qui si può misurare il grado di razionale e scrupolosa meticolosità dell’uomo, dice lui stesso di aver fatto aggiungere una catenella e un anello d’argento per poter meglio appenderla ad un chiodo.[5]
L’immagine, quattro figure in argento sul fondo di legno, rappresenta la Vergine, lui con la moglie Françoise de la Chassaigne e la figlia Eleonora, la secondogenita, unica superstite delle loro sei figlie.
La scritta in latino, scolpita nell’argento recita[6]
Michel Montanus, gallus vasco, Eques regii ordinis, 1581, Francisca Cassaniana uxor, Leonora Montana filia unica.
Il gruppo di viaggiatori è accompagnato dagli inservienti, in genere uno a persona, che sono incaricati dei numerosi bagagli.Tra quelli che formano l’equipaggio inizialmente c’è anche un anonimo segretario che avrà il compito non indifferente di redigere il Journal. Costui sarà sempre ignorato dalla critica che, resa cieca dalla grande personalità letteraria di Montaigne, non discerne «que le scribe lui aussi écrit et pas seulement l’écrivain» [7]
Le Voyage dall’inizio, e per quasi un terzo della sua lunghezza, appare un testo a una sola voce, dato che è l’A. che parla, anche se è scritto a quattro mani, dal 5 settembre 1580, data di inizio della documentazione in nostro possesso, fino al Carnevale trascorso a Roma nel febbraio 1581.
Tutto ciò prima del viaggio che Montaigne ha l’intenzione di fare verso Loreto perché dopo il 16 febbraio, e in maniera del tutto inaspettata, sarà lo stesso Montaigne che continuerà la stesura dei suoi appunti senza fornire ragione alcuna dell’allontanamento del segretario.
Subito dopo le celebrazioni pasquali, dopo aver cercato e ottenuto, il titolo onorifico di « citoyen romain» (pag. 232), e dopo esser tornato in possesso dei due volumi degli Essais che intanto il Sant’Uffizio aveva creduto bene di censurare, censura della quale l’A. non si curerà mai, Montaigne lascerà Roma, da solo, per venire nelle Marche percorrendo tutta l’ardua via Lauretana.
Il viaggio da Roma a Loreto si configurava allora come un vero e proprio pacchetto turistico che Montaigne, una volta arrivato a Loreto, non mancherà di criticare aspramente,ma anche con il suo solito buon senso che rende ancora attuali le sue osservazioni sulla fretta ed il pessimo trattamento riservato ai viaggiatori;
«Per venire da Roma a Loreto, il qual viaggio ci richiese quattro giorni e mezzo, spesi sei scudi, vale a dire cinquanta soldi per cavallo, e chi ci noleggiava gli animali manteneva essi e noi. Questo tipo di contratto non è conveniente, in quanto i noleggiatori vi abbreviano le giornate ( del viaggio) a causa della spesa incontrata , e poi vi fanno trattare il più tirchiamente[8] possibile» (p. 232).
Montaigne entra nelle Marche all’alba del 22 aprile,sabato, dopo aver lasciato la via Flaminia a Foligno e affrontato la salita verso Colfiorito. E’ molto ben disposto e la pagina in cui descrive il passaggio attraverso i monti dell’Appennino è un vero esordio primaverile , quasi un topos di apertura di questo nuovo capitolo del suo viaggio:
«Ma al principiare del giorno avemmo per qualche tempo la magnifica vista d’infinite colline sparse ovunque dell’ombra d’ogni specie di frutteti e delle migliori messi che sia dato d’immaginare, e sovente in luoghi così erti e scoscesi, che sembrava un miracolo vi potessero passare anche solo i cavalli; le valli più amene, ruscelli in numero sterminato, tante case e villaggi di qua e di là (…) su queste colline non esiste un sol palmo di terra inutilizzata. E’ pur vero che la stagione primaverile le favoriva. (…) oltre a ciò non manca di aggiungere bellezze il fatto che, tra questi colli così fertili, l’Appennino mostri le proprie vette accigliate, inaccessibili, da dove si vedono precipitare molti torrenti che, persa la primitiva furia, in queste valli diventano amenissimi ruscelli assai lenti e dolci. Fra i dossi all’intorno si scoprono, sia in alto sia al basso, parecchie fertili pianure stendentisi a perdita d’occhio col variare delle prospettive, e potrei persino affermare che nessun quadro può riprodurre un paesaggio tanto ricco» (pp.243-244).
Nonostante la bellezza dei paesaggi non deve essere stato un viaggio molto comodo, non manca qualche imprevisto e qualche nervosismo, come la sosta serale e notturna, tra il 22 e il 23 aprile, e del tutto casuale, nella stazione di posta di Valcimarra, invece che in quella di Tolentino, dopo una lite avvenuta con il vetturino:
« (…) siccome avevo dato uno schiaffo al nostro vetturino (…) non volendomi più servire di detto vetturino ed essendo per conto mio qualche po’ inquieto che potesse andare a denunciarmi, contrariamente al mio proposito ( che era di raggiungere Tolentino) mi fermai a cena a Valcimarra (…) un villaggetto sito sul fiume Chienti»( p. 244).
Tanta è stata la forza del modello letterario esercitata da Montaigne che molti viaggiatori francesi dell’800 vorranno fermarsi a Valcimarra. Forse è dovuto proprio a questo successo il fatto che la vecchia stazione di posta, miracolosamente intatta, ancora rende perfettamente leggibile la sua funzione originaria attraverso i due edifici in linea: la locanda San Giorgio e la rimessa per le carrozze situata al bordo della vecchia strada per Roma.
Il giorno successivo, domenica 23 aprile, il gruppo prosegue fino a Tolentino e poi attraversa la bella zona collinare fino a Macerata:
«(…) vieppiù pianeggiante, sì da non rimanerci ai lati che collinette facilmente accessibili, e tale da richiamare molto da presso l’Agenois, là dove si trova il più bel tratto della Garonna» (pp.244-245)
osserva Montaigne facendo, con il veloce richiamo alle bellezze francesi, richiamo che l’A. userà anche per altri scorci marchigiani, uno dei più rari e importanti complimenti che un francese riesca ancora oggi a fare ad una terra straniera.
Dopo aver percorso dunque questa strada «assai bella» che fiancheggia il Chienti e che prima dell’ingresso in città si presenta persino lastricata di mattoni in cotto «briques», Montaigne arriva per l’ora di pranzo a Macerata.
In pochi tratti essenziali e significativi lo scrittore traccia il profilo della città:
«(…) posta su un altopiano di forma quasi circolare e che da ogni parte s’innalza veso il suo centro[9]. Non vi sono molti begli edifici; ho notato un palazzo di pietra viva, con la facciata a punte di diamante, simile a quello del cardinale d’Este a Ferrara »(p.245).
Montaigne entra in città da Porta Boncompagno, ora scomparsa e sostituita nell’800 da una grande cancellata chiamata oggi semplicemente ‘i Cancelli’ di Porta Garibaldi’ dal nome della piazza antistante.
E’ colpito dall’andirivieni del gran numero di gruppi e persone che compiono il pellegrinaggio a piedi a Loreto e che si distinguono per i loro abiti da pellegrini. Rimane anche colpito dal fatto che per la strada viene offerto del vino cotto, sul cui procedimento di preparazione si è già informato accuratamente perché scrive:
« (…)- per renderlo migliore- lo fanno cuocere e bollire sino a perderne la metà» (p.245).
Nel pomeriggio lascia Macerata e si avvia verso Loreto passando lungo una strada perlopiù selciata di mattoni disposti di taglio,[10] quale si conserva ancora intatta nella piaggia sottostante la Chiesa di San Giorgio che uscendo dalla città scende in direzione di Recanati:
«una lunga città posta su un altopiano e adagiantesi secondo le pieghe e i contorni del colle» (p.246),
arrivando la sera stessa del 23 aprile a Loreto.
Sempre in quel pomeriggio della domenica ha il tempo di percorrere le strade di Loreto che gli appare subito come un bel village chiuso nei suoi bastioni costruiti a difesa dai turchi, situato in « una gran bella posizione»(p.246) su alto pianoro che si affaccia su una bella distesa e sul mare Adriatico e inoltre, aggiunge, dopo essersi informato:
«dicono che, col bel tempo, al di là del mare si scorgono le montagne della Schiavonia»(p.246), la Dalmazia odierna.
Il viaggiatore passa poi veloce, ma forse anche con qualche interesse per gli oggetti venduti se vi lascia « près de 50 bons écus», ben cinquanta scudi, attraverso le tante botteghe allestite, allora come oggi, lungo la via che conduce al santuario.
Qui lo stile narrativo cui ci aveva abituati Montaigne subisce un brusco cambiamento: questa volta, quasi in un rovesciamento di prospettiva, Montaigne non organizza logicamente la descrizione partendo dall’esterno per arrivare al nucleo della basilica, ma mette subito al centro quel « lieu de dévotion», tanto immaginato ancora prima di iniziare il viaggio.
« Le lieu de dévotion c’est une petite maisonnette fort vieille et chétive, bâtie de briques, plus longue que large. A sa tête on a fait un moïen, lequel moïen a à chaque côté une porte de fer; à l’entre-deux une grille de fer; tout cela grossier, vieil et sans aucun appareil de richesse. (…)au travers d’icelle (grille), on voit jusques au bout de cette logette ; et ce bout (…) c’est le lieu de la principale religion. Là se voit, au haut du mur, l’image Notre-Dame, faite, disent-ils, de bois»(p. 246).
« Il luogo di devozione è una piccola casa, vecchia e umile, fatta di mattoni, più lunga che larga. Nella parte anteriore è stato costruito un tramezzo che ha una porta di ferro da ogni lato; in mezzo c’è un’inferriata di ferro: tutto ciò è rozzo, vecchio, senza alcuna apparenza di ricchezza. Attraverso l’inferriata, si vede il fondo di questo misero alloggio, e proprio quest’angolo è il luogo più sacro.Là, sulla parte alta del muro, si può vedere l’immagine della Madonna, fatta, dicono qui, di legno».
Nella frase in francese, che anche la migliore delle traduzioni in italiano non riesce a rendere, traspare un grado di sottile, intima commozione espressa dalla ridondanza affettiva dei due diminutivi avvicinati petite e maisonnette e da quell’aggetivo chétive dal significato alquanto sfumato: piccola, nascosta, o, come era nel significato dell’etimo latino CAPTIVA, prigioniera, si potrebbe dire catturata dalla preziosità dei marmi bramanteschi . Poi l’A.continua ripetendo ancora spesso diminutivi quali logette, casette, maisonnette che rendono l’idea del piccolo, semplice, ristretto, quasi a far risaltare, in un chiasmo ideale, che in tanta semplicità si nasconde il luogo «de la principale religion »[11], «della religione più grande», fino ad arrivare al fulcro narrativo,la descrizione del camino che Montaigne ritiene il cuore simbolico della vita che doveva essersi svolta in quella povera abitazione:
« En ce petit lieu est la cheminée de cette logette, laquelle vous
voyez en retroussant certains vieux pansiles qui la couvrent» (p.247).
« In quel piccolo luogo si trova il camino del misero alloggio, è possibile vederlo tirando indietro delle vecchie cortine che lo coprono».
Montaigne non può certo sapere che il camino era stata un’aggiunta medievale operata nel momento della ricostruzione della casa perché, secondo i dati archeologici più recenti, la casa era costituita soltanto da tre lati appoggiati all’ingresso di una grotta, e rimanendo nella logica di una effettiva e concreta vita familiare, vede in esso la prova tangibile del nucleo di realtà da cui ha preso una volta vita la religione cristiana.
In queste pagine constatiamo che Montaigne non si aspetta dal luogo una risposta alle grandi domande sulla vita e sulla morte, sulla trascendenza, la predestinazione, sulla fede stessa. Egli ha già accettato il cristianesimo come «principale religion». Ora vuole però cercare di capirene la verità storica attraverso la conoscenza di quella che si presenta come la più antica tra le testimonianze relative alla lontana vita familiare di Gesù Cristo in Palestina. La sua esperienza religiosa è al contempo un’esperienza intellettuale che ubbidisce al bisogno di conoscere e di sapere, il suo è un atteggiamento da studioso, forse più curioso che veramente fedele.
Partecipa alla messa e riceve la comunione nella cappella , « ciò che non si concede a tutti» (p.248) come con un certo compiaciento aggiunge, dopo esser riuscito pure a sistemare accanto alla porta il suo ‘quadro’ votivo che viene però « curieusement attaché et cloué» (p.247) cioè fissato al muro, inchiodato, senza quella catenella che lui aveva fatto preparare.
Poi la narrazione riprende, questa volta dal particolare al generale: lo sguardo di Montaigne, dopo aver considerato la grande bellezza dell’edicola marmorea del Bramante, si volge alla vasta« magnifica chiesa» che sovrasta la casette, come la chiama con un ennesimo e finale diminutivo affettivo.
Montaigne si fermerà a Loreto per altri due giorni ancora e se ne andrà grato delle «force courtoisies»(p.252), molte gentilezze, che ha ricevuto da parte di alcuni sacerdoti della Santa Casa. Si direbbe che questa pausa del suo viaggio gli serva anche analizzare meglio tutta la complessa organizzazione di quel luogo di culto dove la religione fa mostra di sé più che in ogni altro posto da lui conosciuto:
«Il y a là plus d’apparence de religion qu’en nul autre lieu que j’aie vu» (p.248), e dove, aggiunge con una certa sorpresa, non costa nulla confessarsi né comunicarsi:
« Les gens d’Église (…) pour la confesse, pour la communion, et pour nulle autre chose, ils ne prennent rien» (p. 249).
Lo vediamo anche attirato soprattutto dalle plurime testimonianze dei miracoli compiuti dall’immagine lignea della Madonna bruna e da quel cero mandato da un Turco, che forse, aggiunge con un sorriso disincantato Montaigne, in una situazione di estrema necessità si era voluto aiutare «de toutes sortes de cordes»(p. 248), con ogni specie di soccorso! Quella che però lo colpisce di più è la testimonianza di un giovane e nobile francese, già incontrato durante il soggiorno romano. Costui gli racconta di come a Loreto avesse miracolosamente recuperato l’articolazione di un ginocchio che tutti dicevano essere inguaribile.
Dopo questa lunga sosta lauretana, dapprima incerto se dirigersi a Napoli, via Pescara, Montaigne finalmente rilassato prosegue per Ancona facendo una breve fermata a Porto Recanati, sufficiente per notare il bel porto e «le fort»(p.251), la fortezza.
Ha inizio così la seconda parte del viaggio nella Marca Anconetana: ormai al di fuori dell’itinerario del pellegrinaggio lo scrittore si mostra attratto da altre cose, quali il contatto con la gente sulle tracce storiche della presenza romana. Percepiamo un netto cambio di atteggiamento dal fatto che le osservazioni naturalistiche sono molto ridotte e che l’A. sembra seguire in primo luogo il suo desiderio di ritrovare solo le testimonianze che restano di quel lontano mondo latino che ama.
La sera di mercoledì 26 aprile Montaigne è in Ancona, la capitale del Picenum, come precisa, ed è pronto a cogliere subito lo spirito di questa vivace città «marchande», mercantile, abitata da gente diversa e di diverse culture. Essa gli appare anche ben costruita così situata tra due promontori.:
(…) la parte principale ( della città) giace nell’avvallamento e lungo il mare, dove esiste un bellissimo porto , dove si vede ancora il grande arco ( costruito) in onore dell’imperatore Traiano, di sua moglie e di sua sorella” (p.252)
Montaigne non trascrive il testo dell’epigrafe che ancora oggi è leggibile nell’attico dell’arco di Apollodoro di Damasco ( 115 d.C.) edificato quando Traiano fece sistemare il porto in modo radicale, ex pecunio suo, a proprie spese, e fa solo cenno alle due dediche affiancate per Plotina e per Marciana. Durante questa prima parte della visita di Ancona il viaggiatore francese sembra piuttosto essere stato preso e distratto dall’organizzazione pratica della continuazione del suo viaggio, almeno fino al momento in cui non riesce a noleggiare ben otto cavalli, assieme ai vetturini, per la durata di otto giorni, per potere così arrivare fino nei dintorni di Lucca dove conta di riprendere le sue cure termali.
La sera, dopo aver mangiato moltissime, ma magre, quaglie di passo, la sua attenzione si riaccende e rimane colpito da un colpo di cannone che giunge dal lontano Abruzzo e dal sistema di segnalazioni costituito da torri poste lungo il mare, sistema che, osserva, è capace di segnalare un allarme «dall’estremità dell’Italia fino a Venezia» (p. 257).
Il giorno seguente, prima di lasciare la capitale della Marca, si concede ancora un giro per ammirare la bellezza del sito: sale a San Ciriaco per vedere le numerosissime reliquie (della Passione) e, forse attirato dell’etimologia greca del nome Ancona, che puntualmenete riporta, fa menzione anche di una chiesa greca che reca sulla porta una antica lapide scolpita. Purtroppo di questa testimonianza non se ne sa molto di più perché con ogni probabilità si tratta della chiesa di S. Anna, detta dei Greci, distrutta nei bombardamenti dell’ultima guerra.
Un rapido cenno alla popolazione anconetana:
« Qui le donne sono generalmente belle, e molti sono gli uomini onesti e bravi artigiani» ( p. 253)
chiude la pagina dedicata ad Ancona.
La sera del 27 aprile, Montaigne, accompagnato adesso dal suo equipaggio, fa sosta nell’ unica « bella locanda» nella «bella cittadina» di Senigallia che però sembra non offrire nessun’altra antichità all’infuori dell’etimologia del suo nome legata ai Galli:
« i nostri antenati che vi si stabilirono, quando furono sconfitti da Camillo ( p. 254).
Non sta molto bene a causa di una piccola ferita che si è procurato all’occhio con il pollice «destro», e scherza con il significato dell’aggettivo latino sinistrum ‘infausto’, che in latino ed in italiano vuole anche dire della mano sinistra, inserendolo nella frase :
Erat tunc dolor ad unguem sinistrum ( p. 254)
Il viaggio, nonosante la leggera indisposizione, continua e, lasciata Senigallia la mattina del venerdì, il gruppo arriva per l’ora di pranzo a Fano, attraversando il Metaurus, su un gran ponte di legno.
Qui, dopo un generico apprezzamento sull’abbondanza dell’acqua dolce nella cittadina rivierasca, Montaigne ci dà alcune scarne indicazioni. La prima:
«vi vedemmo un grande arco antico dove si trova una iscrizione sotto il nome di Augusto, qui muros dederat” ( pp. 254-255)
ha sucitato un ampio dibattito tra gli storici e archeologi in quanto l’arco potrebbe essere costantiniano; [12] l’altra è solo il completamento del toponimo moderno nell’antico Fanum Fortunae, tempio o luogo sacro dedicato alla dea Fortuna.
Poi, il nostro viaggiatore, forse ben disposto per il fatto che finalmente ha mangiato molto bene, a base di pane, vino e pesce, parla con un certo entusiasmo dell’allegria della città nelle cui osterie si suona e si canta sempre e dove è facile trovare degli strumenti musicali ovunque
« persino dai rigattieri agli angoli delle strade»(p.255).
Infine aggiunge con un certo rammarico:
«Questa città è famosa tra tutte le città italiane per le belle donne: non ne abbiamo vista neanche una, anzi solo molto brutte. Ed un brav’uomo del luogo al quale chiesi il perché mi rispose che il tempo ( delle belle donne) era ormai passato» ( p. 254).
Invece di continuare per Pesaro e Rimini, l’equipaggio si dirige dalla costa agli Appennini per poi scendere in Toscana e perciò percorre il tratto della via Flaminia che costeggia il Metauro. Anche questa zona richiama alla mente di Montaigne una dolce pianura del suo paese d’origine, il Périgord, ma il ricordo dell’importante battaglia del Metauro in cui morì il cartaginese Asdrubale, fratello di Annibale, durante la seconda guerra punica, sembra essere più presente.
Arrivano quindi a Fossombrone, Forum Sempronii, già sotto la giurisdizione dei duchi di Urbino, abbastanza presto nel pomeriggio se Montaigne sembra molto contento di aver avuto il tempo di far domande sulla storia locale a molte «brave persone»», honnêtes gens, compreso Vincenzo Castellani, dotto latinista del luogo, noto come commentatore di Sallustio.
Riguardo a quanto osservato del mondo antico, Montaigne dice, fornendo anche in questo caso un ampio materiale di discussione agli storici e archeologi che seguiranno:
« Sulla piazza c’è un grosso piedistallo di marmo con una iscrizione molto grande che risale ai tempi di Traiano, in onore di un abitante proprio di questo luogo e un’altra contro il muro che non ha nessuna notazione temporale» (p.256)
e poi cita il ponte in pietra sul Metauro, per via Flaminiam.
L’indomani mattina, sempre sulle tracce del mondo romano, Montaigne impone una faticosa deviazione al suo equipaggio: seguendo una strada impervia lungo un affluente del Metauro, il Candigliano, che Montaigne nella sua imprecisa trascrizione dei nomi dice essere il Cardiana, conduce tutto il gruppo al passo del Furlo:
«un passaggio lungo 50 passi, fatto attraverso una di quelle alte rocce e, dato che è una grande impresa e che Augusto vi pose mano per primo, c’era una iscrizione a suo nome che il tempo ha cancellato e se ne vede ancora un’altra, all’altro capo, in onore di Vespasiano ( p. 256)
La testimonianza dello scrittore francese appare estremamente preziosa dato che agli storici è ben nota solo la dedica a Vespasiano. Dell’altra iscrizione, «que le temps a effacé» non si ha altrimenti notizia; e, certo, sarebbe il caso, spronati da Montaigne, di ricontrollare accuratamente in loco la superficie con la celebre iscrizione rupestre.
Montaigne è molto impressionato dalla potenza delle vestigia: lo colpiscono i muri di sostegno «grands ouvrages des bâtiments du fond de l’eau» (p. 257) che si trovano sotto il livello dell’acqua molto alta. E’ colpito altresì dalle enormi rocce tagliate e levigate «des rochers coupés et aplanis d’une épaisseur infinie» e persino da quanto rimane dell’antico selciato romano ormai ricoperto di terra «des traces de leur gros pavé, qui est enterré pour la plupart»( p. 257).
Dopo essere tornato indietro il gruppo sale fino ad Urbino.
Si capisce subito che la città ducale non piace molto al viaggiatore francese. «Ville de peu d’excellence», città di non grande pregio, dice fin dall’inizio, forse perché dovunque si deve salire e scendere « partout il y a à monter et descendre». Non gli piace neanche il famoso palazzo ducale che gli appare come «une grande masse», massiccio, senza una bella vista sui monti vicini «( la vue) n’a pas beaucoup de grâce», senza nulla di gradevole né dentro né fuori «ce bâtiment n’a rien de fort agréable ni dedans ni autour»( p. 257). Montaigne non apprezza lo sfarzo architettonico tutto italiano delle stanze che si aprono l’una nell’altra, motivo che tuttavia , ma egli ancora non lo può sapere, diventerà anche francese dopo la costruzione parigina dell’hôtel de Rambouillet all’inizio del secolo successivo, e dice a tal proposito:
«Se guardate attraverso una porta ne vedete spesso altre venti, tutte nello stesso senso e poi altrettante nell’altro senso, e anche di più»( p. 257)
Non ama l’ostentazione dei titoli nobiliari e militari dei Montefeltro e dei della Rovere e, soprattutto, non ama il contenuto eccessivo di una iscrizione che recita che il palazzo è la più bella casa del mondo «qui dit que c’est la plus belle maison du monde» ! ( p. 257)
Con ironia, mescolata persino ad una punta di sarcasmo, passa a parlare dei duchi di Urbino, bravi e buoni e «tous gens de lettre», tutti letterati, tanto da dotare il palazzo di una bella biblioteca, di cui però non si trova la chiave. «La clef ne se trouva pas», (p. 258) scrive Montaigne giocando con la forza stilistica tutta francese di quella terribile, breve, incisiva, frase assoluta. Montaigne critica la politica stessa dei duchi che sembrano avvicinarsi di più alla Spagna e all’Inghilterra piuttosto che alla Francia; arriva a criticare persino il matrimonio dell’allora duca di Urbino, Francesco Maria II della Rovere, con Lucrezia d’Este, più vecchia di lui di ben dieci anni; il suo buon senso gli fa prevedere che, dato che la coppia ha poche speranze di avere figli, «ils ont peu d’espérance d’enfants»( p. 258), il ducato sarebbe tornato nelle mani della Chiesa, fatto che si verificherà nel 1631, alla morte del duca Francesco Maria..
Due rapidi cenni, ancora non positivi, all’architettura del palazzo chiudono le abbondanti critiche di questa pagina urbinate: le stanze da letto troppo grandi e fredde, la scala a chiocciola da dove possono salire anche i cavalli, troppo stretta e ripida.
Montaigne passa subito dopo a descrivere un luogo poco distante dalla città che invece sembra interessarlo molto, il supposto Sepulcro d’Asdrubale,[13] probabilmente una tomba romana posta su una collina denominata Monte d’Elce.
«(…) e si vede anche una costruzione rotonda di grossi mattoni o pietre, il cui diametro è di circa 25 passi ed è alta 25 piedi. Tutt’intorno, ogni tre passi, vi sono dei sostegni fatti con gli stessi mattoni. Non so come i muratori chiamano questi appoggi che fanno per sostenere, come dei becchi. Salimmo di sopra, dato che nella parte bassa non vi erano entrate. Vi trovammo una ( stanza a) volta, all’interno nulla, nessun blocco, nessuna iscrizione» (p.259).
Il riferimento ad una lapide marmorea «que de notre âge il a été pris» (p.259) già trafugata fin da allora, non ha fermato il curioso viaggiatore francese dall’imporre anche questa volta una deviazione lungo l’itinerario di uscita dalla Marche.
Il gruppo prosegue quindi per una strada montuosa e tortuosa fino a Castel Durante, l’attuale Urbania, che trovano in festa così come la piccola e bella Sant’Angelo, oggi sant’Angelo in Vado, dove gli abitanti si apprestano a festeggiare il primo maggio con le reginette «du mi-carême» di mezza quaresima (p.260).
E’ questa l’ultima nota gioiosa che riguarda le Marche, perché dopo aver superato Mercatello e dopo ave mangiato poveramente a Borgo Pace, il gruppo si inoltra sull’Appennino fino alle sorgenti stesse del Metauro, tra monti che richiamano alla memoria di Montaigne quelli dell’Alvernia e del Massiccio Centrale.
Il pomeriggio del 30 aprile lasciano «la juridiction du duc d’Urbin» (p.260) per scendere infine verso la Toscana, lungo la vallata del Tevere.
Montaigne ha dunque trascorso nella Marca Anconetana solo nove giorni. Il periodo è breve ma è proprio in questo tratto del diario del lungo viaggio che il carattere dell’uomo, con il suo sguardo mobile, tenace, aperto, emerge con maggior evidenza tanto da trasformare il tempo trascorso nelle Marche in uno dei tratti più significativi dell’intero percorso.
Lungo la via Lauretana, dall’Appennino fino a Loreto, nella scrittura di Montaigne si percepisce una nota intima, una tensione spirituale ed emotiva che si placa a volte nella descrizione dei paesaggi e infine alla vista della semplicità tutta naturale della piccola casa di Nazareth. Che il problema religioso sia presente nel Journal de voyage è un dato palese anche se Montaigne in genere sembra molto più attento all’aspetto antropologico e sociale della religione: da uomo del suo tempo non poteva non tener conto di quello che era uno dei problemi più urgenti della sua epoca.[14]
Loreto, le cerimonie sacre cui partecipa all’interno del Santuario, con la messa e la comunione, la pace di cui Montaigne sembra godere nei due giorni trascorsi in quel luogo, acquistano un eccezionale rilievo all’interno del Journal, sono quasi un breve ma importante contrappunto spirituale dei giorni trascorsi nella vociferante Roma papalina.
Lo scetticismo venato di agnosticismo non rappresenta dunque, come comunemente si asserisce, l’unica condizione spirituale di questo pensatore; la devozione mostrata a Loreto è forse uno dei tanti espedienti di fronte alla paura della morte, «corde di salvataggio» le aveva chiamate lo scrittore con realistico umorismo osservando il cero offerto alla Madonna da un Turco; essa è tuttavia avvicinabile a quella cerimonia, molto scrupolosamente preparata[15] al momento della sua morte, da buon cattolico.
E’ invece evidente che nella scelta della seconda parte del soggiorno marchigiano, quando Montaigne si fa guidare dalla sua passione di colto studioso del passato, critico e dinamico, il viaggio diventa ricerca di conoscenza. Siamo di fronte alla prima testimonianza in cui emerge quell’atteggiamento mentale che guiderà tanti viaggiagori stranieri nei secoli successivi.
Nelle pagine di questi utimi brevi giorni, solo dal 26 giorno dell’arrivo in Ancona fino al 30 aprile, risalta con molta chiarezza il cambiamento di Montaigne. Egli, pur avendo la percezione di una realtà povera ed in condizioni di indigenza, come le sue notazioni sul cibo rivelano, non ha la percezione di una povertà culturale se ricerca il contatto con le persone. Si mostra allora non solo affabile e loquace, parla e interroga chiunque, dallo storico latinista locale al semplice uomo della strada. Si lascia condurre persino dalle leggende come avviene per il sepolcro di Asdrubale,«un lieu que le peuple de tout temps appelle Sepulcro d’Asdrubale» ( p. 258) luogo consacrato all’eroe cartaginese solo dall’oralità della tradizione popolare.
Cerca nelle parole e nelle pietre le tracce della sopravvivenza della fulgida storia romana e questa ricerca gli dà quella forza che lo aiuta a superare qualche malessere, come l’occhio rosso, o gli inevitabili disagi delle strade di allora. Quello che prevale in questo tratto del viaggio non è l’immagine dell’uomo malato, quale poi incontreremo ai Bagni di Lucca, ma il ritratto dinamico di un uomo che vuole vedere tutto ciò che è possibile per trarne sapere, piacere e svago intellettuale come dopo di lui faranno schiere di viaggiatori che affronteranno il viaggio di esperienza e di conoscenza in Italia, viaggio che oggi chiamiamo Grand Tour.
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Sono confluiti nel presente saggio alcuni miei studi precedenti, in particolare:
— per i dati archeologici;
Montaigne e l’archeologia marchigiana, in Sedicesimi, Studi e frammenti di Letteraura francese, Roma, Il Calamo, 1999, pp.77-83;
— per la sosta a Loreto, importantissima per il rapporto della lingua di Montaigne con il latino e l’italiano, in
La langue de Montaigne dans le Journal de voyage. Contribution au débat in Religion et littérature à la Renaissance, Mélanges en l’honneur de Franco Giacone, Paris,Garnier, 2012, pp.100-108
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[1] Cfr. il Discours préliminaire par Meunier de QUERLON riportato alle pp. 37-71 dell’edizione curata da F. GARAVINI, Michel de MONTAIGNE, Journal de Voyage, Paris, Gallimard, 1983, edizione cui di seguito mi riferirò traendo riferimenti testuali, citazioni e mettendo tra parentesi i numeri delle pagine; la traduzione delle citazioni è mia.
[2] Dapprima è lo stesso abate de Prunis a fornire una traduzione in francese della parte italiana e poi il primo editore Querlon affida l’incarico al prof G. Bartoli, regio bibliotecario e professore a Torino, cfr. le notizie fornite dallo stesso Meunier de Querlon nel Discours préliminaire, cit., p.40.
[3] Si veda a tal proposito il documentato testo di E.H.ERCOLI, Grand Tour. Il viaggio di formazione lungo la Via Lauretana, Macerata, Camera di Commercio, 2008.
[4] Ed. cit. p. 103.
[5] Ed. cit. p. 247.
[6] Della tavoletta registrata tra gli oggetti della Santa Casa fin dalla fine del ‘500, si sono poi perse le tracce, cfr. ed. cit. nota n. 623 p. 437.
[7] F. GARAVINI, Introduction, p.15
[8] Écharsément, antico avverbio popolare in uso nella Francia del sud.
[9] Nel testo ventre.
[10] Montaigne osserverà la stessa tecnica del disporre i mattoni di taglio anche nella scala a chiocciola del palazzo ducale di Urbino.
[11] Molti traduttori usano il lemma ‘religiosità’ al posto di ‘religione’. Si tratta di un cambiamento molto imporante che affievolisce l’asserzione di Montaigne in cui si ritrova invece la manifestazione della propria adesione al cristianesimo.
[12] Cfr. V.PURCARO, Osservazioni sulla “porta augustea” di Fano, in. « Rend. Accademia Lincei», ser. VIII, CL. Sc. mor. st. filol., XXXVII (1982), pp. 141-158.
[13] La grafia Sepulcro sembra rispecchiare l’oralità del timbro marchigiano.
[14] F. GARAVINI, Introduction, p.20
[15] M. DREANO, La pensée religieuse de Montaigne, Paris 1937.