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La Sibilla tra storia e mito

di Alberto Pellegrino

La Sibilla tra storia e mito

di Alberto Pellegrino

 

La poetessa Rosa Berti Sabbieti ha definito così il mito appenninico: “La Sibilla resta la maliarda, maga, strega, regina. Amore e Morte, seduzione duplice del mistero “donna”…a illuminare col suo torbido fascino romantico la catena che da lei si chiama dei Sibillini”.

I monti della Marca centrale si ergono contro il cielo come una grande muraglia capace di racchiudere un mondo di antichi miti e leggende e non a caso le cime hanno nomi dal significato religioso (Cima del Redentore, Valle Santa, Scoglio del Miracolo, Poggio del Paradiso) o esoterico (Passo Cattivo, Grotta del Diavolo, Pizzo del Diavolo, Gola dell’Infernaccio).

In questa catena montuosa si erge il Monte della Sibilla (m. 2175), che  lo storico Dante Cecchi definisce “la cima più bizzarra del gruppo. Non è a ferro di cavallo o somigliante alle corna arcuate di un bovino, come il Monte Bove…La forma rotondeggiante della montagna è interrotta verso la cima da una collana verticale di gigantesche rocce di colore rosato che i pastori chiamano la corona; sopra di essa riprende il pendio bruscamente interrotto, e riprendono i prati dai quali si giunge rapidamente alla cima”.

Sotto la vetta si apriva un tempo la Grotta delle fate o della Sibilla, il cui ingresso è franato, per cui sono rimaste poche tracce visibili di questo leggendario anfratto, la cui la descrizione scientificamente più precisa è stata fatta da un geologo del primo Novecento che ha tracciato la planimetria di un anfratto naturale con una volta a cupola dell’altezza media di quattro metri e un fondo leggermente in salita. Da questa cavità, alla quale si accede attraverso un breve corridoio in declivio, partono dei cunicoli secondari, in uno dei quali si vedono degli scalini che possono far pensare alla leggendaria scala che immetteva nel regno della Sibilla. Nonostante le esplorazioni e gli studi fatti, la Grotta della Sibilla continua a essere avvolta in un alone di mistero che ha fatto fiorire numerose leggende popolari e una vasta letteratura, per cui essa continua a essere il punto di riferimento uno dei più antichi e affascinanti miti del nostro patrimonio nazionale, un mito che ha avuto vasti echi e profonde ripercussioni in tutta l’Europa del Centro-Nord.

 

La Sibilla (da Sibilla di Fabio Santilli e Mauro Cicarè)

La Sibilla (da Sibilla di Fabio Santilli e Mauro Cicarè)

Il mito della Sibilla appenninica

Nel cuore dell’Appenino centrale nasce per la Regina Sibilla un vero e proprio culto che affonda le sue radici nell’inconscio culturale occidentale e che ha il baricentro d’attrazione in questa grotta che è stata meta privilegiata di “pellegrinaggi” laici compiuti da viatores che non vanno in cerca di consolazione per le loro sofferenze o di salvezza per la loro anima, ma vogliono vivere un’avventura che consenta loro di superare le frontiere dell’ignoto e del fantastico. Il mito della Sibilla affonda le sue radici nell’immaginario della Grecia classica: per quel mondo la Sibilla è una profetessa depositaria del sapere e in possesso del dono di conoscere la storia del mondo dalle origini alla fine.

Il sapere profetico delle Sibille ha quindi un carattere apocalittico garantito dalla potenza di Apollo, per cui queste donne non sono sacerdotesse del dio ma esseri indipendenti dislocate in diversi luoghi del Mediterraneo (Delfi, Marpesso, Samo, Cuma, Eritrea, ecc.) e contraddistinte da nomi particolari come Erofile, Deifobe, Amaltea, Fito, la Babilonese, la Persiana, l’Ebraica. La più celebre delle Sibille italiche è la Sibilla Cumana, una vergine inaccessibile e una profetessa benefica che, secondo Virgilio, guida Enea nell’Averno. Con l’avvento del Cristianesimo le Sibille pagane si trasformano in annunciatrici della venuta di Cristo, donne che hanno ricevuto il dono della divinazione dalla potenza di Dio. Solo la Regina Sibilla non diventa una profetessa cristiana, ma si trasforma in una fata benigna o in una maga dalla natura demoniaca. Secondo un’antica  tradizione, la Sibilla Cumana si sarebbe rifugiata in una grotta della catena degli Appennini, essendo stata condannata a scontare un peccato di superbia collegato al suo sapere profetico:  avrebbe preteso di essere scelta come madre di Gesù al posto di una sconosciuta e umile vergine ebrea di nome Maria e per questo si sarebbe ribellata a Dio.

Una leggenda popolare narra che in questo regno appenninico sotterraneo e misterioso vive una Sibilla saggia e benefica, le cui ancelle scendono nei paesi a valle per insegnare alle fanciulle l’arte della tessitura. Una leggenda di segno opposto descrive invece la Sibilla Appenninica come una maga potente e terribile, capace di conoscere il passato e di predire il futuro, la regina malefica di un mondo sotterraneo dove si praticano riti orgiastici di natura sessuale, ai quali partecipano giovani cavalieri che penetrano nella montagna e cadono prigionieri delle sue arti magiche.

La scrittrice Joyce Lussu interpreta questo mito applicando a esso la teoria del matriarcato primitivo, secondo la quale la Sibilla è una profetessa che possiede il dono del sapere, che ha la capacità di conoscere il passato, il presente e il futuro, una Magna Mater che si collega al mito della Grande Madre mediterranea e che affonda le sue radici in una civiltà danubiana estesa dall’Ucraina alla Spagna. Negli Appennini centrali si forma una società di navigatori-mercanti dediti alla pesca, all’agricoltura e agli scambi commerciali. Si pensa che queste comunità politiche siano indipendenti e si reggano sulla legge del matriarcato, che in esse non esistano differenze di classe e che non si pratichino le guerre come mezzo di conquista. In queste comunità la Sibilla è la depositaria del sapere e delle conoscenze utili per l’agricoltura e l’allevamento, delle tecniche per l’artigianato. La Sibilla presiede le assemblee, dove si discute l’assegnazione dei lavori, la conservazione e la distribuzione delle scorte, la salvaguardia della salute, la coltivazione e l’uso delle erbe medicinali, la difesa del territorio dagli animali selvatici e dalle razzie di avventurieri

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Le testimonianze letterarie sulla Sibilla

 Secondo una leggenda del Quattrocento, intitolata La storia di Urri e de la Scebilla, i cavalieri di ogni nazione si recano nella grotta della Sibilla appenninica per conoscere il proprio futuro ma soprattutto per soddisfare la loro voglia di avventura, attratti dalla fama dei piaceri sessuali praticati nel regno della maga. Essi percorrono misteriosi passaggi sotterranei, scavalcano vorticosi corsi d’acqua, attraversano sottili ponti metallici per giungere finalmente nel regno incantato della Regina circondata da fanciulle meravigliose che nella notte tra il venerdì e il sabato si trasformano in mostruosi serpenti. Bisogna avere però la forza di abbandonare questo regno di delizie dopo un anno di permanenza, perché altrimenti si rimarrebbe per l’eternità prigionieri della Sibilla.

Numerosi scrittori si sono occupati della mitica Regina e tra questi va segnalato Flavio Biondo che, nella sua opera Italia Illustrata, riferisce che intorno al 1487 è stato processato a Trento un certo Giovanni delle Piatte con l’accusa di stregoneria. Egli ha raccontato di essere salito sul Monte della Sibilla insieme a un frate suo maestro di arti magiche. Dopo tre giorni di marcia i due giungono sulle rive di un laghetto, dove appare loro un essere demoniaco che li invita a rinnegare Dio come condizione per passare sull’altra riva. Dopo aver compito l’abiura, i due entrano in una grotta, attraversano alcune porte, camminano sopra viscidi serpenti e conoscono un certo “Ekart” che li mette in guardia, dicendo che devono assolutamente uscire dalla grotta dopo un anno. Questo Giovanni racconta di essere penetrato in questo regno sotterraneo governato dalla “donna Venus” che dal sabato al lunedì di ogni settimana si trasforma in serpente nella parte superiore del corpo e di avere incontrato un vecchio dalla grande barba bianca chiamato Tannahauser.

 

Il romanzo del Guerin Meschino

Il Guerin Meschino (da Sibilla di Fabio Santilli e Mauro Cicarè)

Il Guerin Meschino (da Sibilla di Fabio Santilli e Mauro Cicarè)

 Andrea da Barberino (1370- dopo il 1431) scrive il romanzo Guerin Meschino intorno al 1409 circa, nel quale racconta le avventure di un giovane che, nato da una famiglia reale, è rapito in tenera età dai pirati ed è condotto nel vicino Oriente, dove viene comprato e allevato da un ricco signore che lo considera come un figlio. Dopo avergli imposto il nome di Guerrino il Meschino, quest’uomo lo avvia al mestiere delle armi e in breve tempo Guerrino diventa un valoroso capitano di ventura, diventando ricco e famoso. Decide allora di conoscere i suoi genitori e si mette in viaggio alla ricerca delle sue origini. Dopo molte diverse peripezie, egli apprende che, per avere notizie precise, deve rivolgersi a una celebre maga, la quale vive in una montagna nell’Italia centrale. Dopo aver attraversato la penisola meridionale, Guerrino arriva a Norcia e contatta l’oste Anuello per farsi indicare la strada per la montagna, si reca poi a Montemonaco dal Capitano delle guardie per avere un lasciapassare, quindi raggiunge alcuni monaci che vivono in un romitorio alla fine della Gola dell’Infernaccio. Gli eremiti cercano di dissuadere il cavaliere, perché chi entra nella grotta della maga rischia di perdere l’anima. Di fronte alla determinazione di Guerrino, i monaci gli danno alcune istruzioni su come comportarsi: egli vi potrà soggiornare presso la Sibilla fino a quando il sole non avrà compiuto il suo viaggio di 360 giorni e sei ore; in quel momento dovrà decidere se uscire, oppure restare per l’eternità nel suo regno incantato. Infine, raccomandano a Guerrino pronunciare la giaculatoria “Gesù Cristo Nazzareno aiutami” di fronte a ogni pericolo o tentazione. Il cavaliere inizia il suo viaggio, portando con sé una spada, alcune candele e una pietra focaia giunto sulla vetta del monte, penetra nella grotta, supera un corso d’acqua e calpesta un misterioso serpente lungo quattro braccia: si tratta di Macco, un peccatore che è stato condannato a non entrare mai nel regno della Sibilla. Guerrino prosegue il suo cammino sotterraneo e giunge dinanzi a una porta ai cui lati sono scolpiti due demoni che recano in mano la scritta “Chi entra in questa porta e passa l’anno che non esce non morirà fino al dì del giudizio e allora morirà in anima e in corpo e sarà dannato”.  Il cavaliere, per nulla intimorito, bussa alla porta che gli è aperta da tre bellissime fanciulle che lo accompagnano dinanzi alla Sibilla, che appare una donna dall’incomparabile bellezza.

L’opera di seduzione della Regina inizia quando chiede a Guerrino di narrare la sua vita, quindi conduce il giovane cavaliere a visitare castelli bellissimi, palazzi meravigliosi, stanze ricolme di straordinari tesori, frutteti e giardini incantati, dove risuonano musiche dolcissime. Guerrino supera con la preghiera una prima tentazione basata sulle lusinghe della lussuria; allora la Sibilla usa tutto il suo fascino, promettendogli che diventerà il potente signore di questo regno stupendo. Guerrino riesce a superare anche la tentazione del potere e la sera del venerdì vede le dame e i cavalieri intorno a lui diventare pallidi e impauriti, mentre nella notte sente echeggiare strazianti lamenti. Il sabato mattina interroga un cavaliere, il quale confessa che durante il sabato tutti si trasformano in orribili serpenti secondo i loro peccati e rimangono in questo stato per tutta la domenica, quindi anche questo cavaliere si tramuta in un orrendo dragone, rafforzando in Guerrino la volontà di non cadere nel peccato della lussuria.

Trascorsi 360 giorni, Guerrino decide di lasciare il regno della Sibilla, per cui le tre damigelle incontrate all’inizio lo accompagnano all’uscita, dopo aver fatto un ultimo tentativo per trattenerlo. Il cavaliere torna a rivedere il cielo stellato, quindi raggiunge il romitorio dove i monaci lo accolgono felici, perché è stato capace di superare ogni prova. Ridisceso a Norcia, Guerrino si mette in viaggio verso Roma per ottenere dal Papa il perdono per aver vissuto nel regno maledetto della Sibilla. Il papa vuole sapere il motivo del suo viaggio e, quando apprende che il suo scopo era  ritrovare i suoi genitori, gli concede il perdono. Andrea da Barberino è il primo a dare forma letteraria a questo mito, rinnovando la tradizione del cavaliere cristiano che sceglie di mettere a repentaglio la propria anima pur di conoscere il suo passato. Andrea rappresenta la Sibilla come una maliarda che ha possiede il dono della profezia, ma che si è dannata perché “le parve meritare che il verbo eterno dovesse scendere in lei dove scese in Maria la quale si reputava indegna”; inoltre egli indica con precisione l’ubicazione del suo regno sotterraneo situato tra “li monti in lo mezzo de la grande montagna di pinino…(presso) la cita de Norza che sta in mezo ad essi”.

 

Il Paradiso della Regina Sibilla

 Antoine de La Sale (1385 c.-1460?) nell’opera Paradis de la Reine Sybille (1444) racconta il viaggio compiuto nel 1420 sul Monte della Sibilla, durante il quale ha raccolto diverse testimonianze e ha disegnato una mappa con l’ubicazione della grotta. L’autore  dice di avere scalato un monte coperto di fiori sotto la cui cima ha visto l’angusto ingresso di una grotta a forma di scudo, dal quale si accede, attraverso un vano quadrato, in una galleria dove ha deciso di non entrare, perché da buon cristiano teme di procedere oltre. La Sale si limita a riferire che nell’ingresso della grotta vi sono incisi alcuni nomi quasi tutti illeggibili; gli unici che ha potuto decifrare sono quelli di Hans von Banborg e Thomin de Pons. Egli descrive il Regno della Sibilla come un luogo al di fuori della storia e del tempo, illuminato da un sole insolitamente splendente, un luogo immerso in una lunga e deliziosa estate, ricca di frutti e fiori di ogni tipo, la carismatica sede di beatitudini riservate a eroi immortali e agli dei pagani. Il Regno della Sibilla, con la sua corte di dame e cavalieri, è un luogo dove la morte è sospesa ed esorcizzata in attesa del Giudizio universale, ma in questo “paradiso” appenninico si deve pagare anche un “prezzo”: infatti un ciclo settimanale scandisce la pena che i suoi abitanti devono scontare “secondo el peccato che li ha conduti in questo loco”, per cui dal sabato al lunedì essi si trasformano in serpenti, draghi, scorpioni e vermi fino al giorno del Giudizio universale.

Lo scrittore francese riporta il racconto di Antonio Fumato, un sacerdote di Monte Monaco che, in compagnia di due cavalieri tedeschi, ha resistito a dei venti spaventosi, è arrivato fino alla porta di metallo che immette nel Regno magico e ha superato le violente acque di un torrente grazie a un sottile ponte anch’esso di metallo. I tre, dopo avere attraversato un bellissimo pianoro, hanno percorso un corridoio contrassegnato da due dragoni scolpiti e sono arrivati in uno spazio quadrato con due porte che i due cavalieri avevano varcato senza più fare ritorno, mentre il prete terrorizzato è fuggito all’aperto. La Sale raccoglie le testimonianze degli abitanti di Monte Monaco, i quali raccontano le storie di giovani del luogo e di cavalieri stranieri che sono penetrati nel Regno della Sibilla senza fare più ritorno.

Il mito della Sibilla secondo la tradizione germanica

Nell’Europa del Nord e soprattutto in Germania la Regina Sibilla perde ogni connotazione magica per diventare la Regina del Paradiso dei sensi, la dea Venus che abita sul Monte di Venere (Venusberg) presso Eisenach, dove giungono cavalieri ribelli e in cerca di avventura, attratti dal fascino del peccato. Il potere di seduzione di questa Venere germanica  è fortemente accentuato, perché la dea, attraverso il piacere, ha la forza di spingere verso l’abbrutimento e il degrado morale i suoi incauti ospiti, convincendoli che, più grande è il peccato, più facilmente sarà possibile conquistare l’immortalità. Questa leggenda a sfondo erotico mette in risalto la dicotomia medioevale tra sentimento amoroso e dovere morale, tra sensualità e impulso mistico, un contrasto che è possibile rilevare anche nelle liriche d’amore dei trovatori tedeschi (minnesanger), nei quali il culto della donna, vista come modello di perfezione umana e come stimolo per una continua elevazione dello spirito, contrasta capacità di provare violente passioni amorose. Uno di questi poeti è il cavaliere Tannhauser, che appare come il protagonista di diverse ballate, nelle quali è costretto a compiere di una drammatica scelta: salvare la propria anima o rimanere prigioniero nel Regno incantato della Venus, un mondo diviso tra Purgatorio e Paradiso terrestre dove resterà in attesa del Giudizio universale. La seduttrice di Tannhauser è la Signora dell’Amore (Fro Minne), la Venus pagana incontrastata sovrana  di un luogo chiamato “Monte di Venere” (Venusberg), una denominazione che compare in diversi testi germanici a partire dal XIII secolo; in essi la dea pagana si trasforma in una potente seduttrice, nella personificazione del contrasto tra l’amore sacro e l’amore sensuale.

Il poema Die Mohrin (1453) di Hermann Von Sachsenhein è il primo testo, nel quale si parla dell’incontrato fra Tannhauser e la Venus; in esso appare evidente che la leggenda germanica si è ormai saldata alla leggenda italica della Sibilla, con la quale la Venere germanica condivide la sua natura di lussuriosa seduttrice, capace di far precipitare nel peccato i cavalieri che finiscono per sottomettersi al suo giogo peccaminoso. Nonostante i diversi collegamenti esistenti tra la Regina Sibilla e la misteriosa Signora della Montagna Incantata, bisogna però ricordare che Regina Sibilla, oltre a essere una maliarda, è anche una profetessa capace di dispensare oracoli ed è proprio questa “oracolarità” a costituire la maggiore diversità tra il mito italico e il paradiso sessuale germanico.

Il Lied von dem Dannhuser (1515) è il primo poema a stampa nel quale appare la Frau Venus, la “Grande Seduttrice” che porta alla perdizione colore che si sottomettono alle sue arti amatorie. In questa opera compare il personaggio di Tannhauser  che la Signora della Montagna Incantata cerca di trattenere accanto a sé con ogni mezzo. Il cavaliere riesce però a lasciare la dea ma, invece di ritornare in Germania, si reca a Roma per implorare il perdono del Papa per i sette anni passati con la Venus. Il pontefice sottopone il cavaliere al giudizio di Dio: conficca in terra un ramo secco e sentenzia che “quando esso porterà rose rosse i tuoi peccati saranno perdonati”. Malgrado le preghiere di Tannhauser alla Vergine, il miracolo non avviene e il Papa nega il perdono al peccatore, per cui questi decide di ritornare nel paradiso della Frau Venus. Tre giorni dopo la sua partenza, per l’intervento di Dio che perdona sempre il peccatore pentito, il ramo secco fiorisce, ma i messi papali non riescono a raggiungere Tannhauser  che rimarrà per sempre prigioniero nella Venusberg. Per questo il papa sarà condannato all’Inferno secondo una visione antipapista e antiromana vicina  allo spirito della riforma luterana.

 

Il Tannahauser di Wagner

E’ il giovane compositore Riccardo Wagner a riprendere nel 1845 l’antico mito germanico con il Tannhauser, la sua prima opera basata sul confronto tra desiderio di redenzione e attrazione sessuale, tra passione carnale e amore spirituale. Al centro della vicenda vi è la figura dell’eroe-poeta, intorno al quale ruotano i due personaggi di Venere e di Elisabetta: la prima è la bellissima dea della sensualità e del peccato, mentre la seconda è l’incarnazione dell’amore spirituale che purifica e nobilita e che spinge la fanciulla a sacrificare la vita per la redenzione dell’uomo amato. Un   chfdgIl compositore intreccia in modo originale e fortemente drammaturgico la storia di un personaggio storico con la leggenda di Santa Elisabetta, dimostrando subito la sua capacità di saper amalgamare storia e mitologia medioevale, collegando il mito del cavaliere-poeta che si perde nel regno della sensualità con il mondo spirituale dei minnesanger.

Sul Monte di Venere, mentre si svolge un’orgia di satiri e fauni, baccanti e sirene, si svolge lo scontro tra Venere e Tannhauser che, sazio d’amore, rivendica la propria libertà e chiede di ritornare nel mondo degli umani, che si oppone con fermezza alla suppliche e alla minacce della dea, invocando l’aiuto della Vergine Maria. Venere allora maledice il cavaliere, il suo regno si dissolve e Tannhauser si ritrova in una valle fiorita, dove avanza un corteo di pellegrini che è in cammino verso Roma per ottenere il perdono dei peccati. I loro canti commuovono Tannhauser, quando sopraggiunge il langravio della Turingia accompagnato dai minnesanger della sua corte, i quali riconoscono Tannhauser, che un tempo è stato il loro orgoglioso rivale. Tutti gli offrono la loro amicizia e lo pregano di non essere riluttante e di fare ritorno nella corte di Wartburg. Quando sente pronunciare il nome di Elisabetta, la giovane nipote del Langravio che è caduta in uno stato di profonda malinconia per la lontananza del poeta, Tannhauser accetta l’invito.

Nel castello di Tubinga Elisabetta incontra l’uomo amato e dal suo animo sgorga un’ingenua confessione d’amore. Viene annunciata la gara di canto fra Tannhauser e gli altri poeti Wolfram von Enschenbach, Walther von der Vogelweide, Biterolf, Heinrich der Schreiber. La competizione ha come tema “la natura dell’amore”: Wolfram esalta la “pura essenza” dell’amore celeste e Tannhauser gli risponde lodando il desiderio e l‘appagamento amoroso; Walter von der Vogelweide identifica l’amore con la virtù e Tannhauser lo controbatte difendendo l’amore dei sensi; Biterolf sdegnato vuole sfidarlo a duello ma Wolfram riesce a calmare i contendenti e rinnova le lodi per l’amore angelicato ma Tannhauser innalza un inno a Venere e confessa di essere vissuto nella sua corte, suscitando lo sdegno dei tutti cavalieri che avanzano minacciosi contro di lui. Elisabetta sbarra loro la strada e, pur essendo ferita nell’anima, chiede per Tannhauser il perdono cristiano. Preso dal rimorso, egli riconosce le proprie colpe e si dichiara pronto ad accettare l’ordine del langravio di recarsi a Roma in pellegrinaggio per ottenere il perdono del Papa. Dinanzi all’immagine della Madonna Elisabetta prega per Tannhauser, pronta a offrire la vita per la salvezza del peccatore. Lacero e sfinito Tannahuser incontra Wolfram e gli racconta che il pontefice gli ha negato il perdono per essere vissuto nel regno di Venere, per cui è dannato per l’eternità.

Il cavaliere rivela all’amico inorridito la sua intenzione di ritornare da Venere che appare in tutta la sua bellezza per convincere il poeta che solo tra le sue braccia potrà trovare la salvezza. In quel  momento discende dal castello il corteo funebre con la salma di Elisabetta, che ha sacrificato la sua vita per salvare l’uomo amato. Si compie allora il miracolo della redenzione: mentre scompare la visione di Venere, Tannhauser s’inginocchia dinanzi al corpo della fanciulla e invoca  la misericordia divina; egli muore redento e i pellegrini rivolgono a Dio un canto di ringraziamento.

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