Seconda tappa del viaggio attraverso l’enogastronomia marchigiana.
di Ettore Franca
Nei secoli scorsi, poi sempre meno per fortuna, netta era la distinzione fra nobili ed ecclesiatici a fronte di molti nelle cui case, tranne qualche volta l’anno, arrivava in tavola un pollo o un coniglio o un po’ di pesce, mentre negli altri giorni ci si doveva accontentarsi di pane, ovviamente nero e di cereali minori, erbaggi o radici e tuberi, perché la loro “natura grossolana” (tale era ritenuta dai benestanti), più che un fatto genetico era il risultato della necessità.
Come in molte altre parti d’Italia infatti, fin dopo la Rivoluzione francese, il denominatore comune del mangiare della gente marchigiana era, in genere, il fil rouge della miseria. Erano le donne che, ricche di inventiva, con le povere e poche materie prime a disposizione s’ingegnavano nelle cucine marinare, contadine, delle colline o dell’area silvo-pastorale di montagna.
Fra i due estremi, nelle Marche esisteva la realtà delle cucine di una fitta rete di conventi, maschili e femminili o delle congregazioni religiose che, oltre alla mensa interna, avevano spesso relazioni con l’esterno concretizzate nel servire pasti ai poveri o, con forte ritorno di immagine sul piano economico-politico, provvedere all’educazione dei rampolli di case nobili e dei figli delle famiglie abbienti o delle classi dominanti.
In origine, secondo il modello archetipico delle regole più antiche, per scelta e per necessità i monaci seguivano un regime alimentare nel quale quasi mai entravano la carne e i cibi elaborati[1], basando la loro dieta sull’essenziale in cui cereali, olìo e vino (terna di elementi fra l’altro simbolici), erano integrati più che altro dai vegetali, crudi o da cuocere. Oltre che sul piano alimentare, la botanica è stata per essi essenziale per maturare un’ampia conoscenza di piante ed erbe: avendo assunto il ruolo di “speziali”, coltivavano i “semplici” nell’hortus conclusus o raccoglievano nei campi sostanze ed essenze vegetali per preparare le pozioni medicinali a favore della gente. La loro competenza a riguardo sarà presto applicata alla liquoristica, tuttora immancabile, anche con un certo fascino, nei monasteri più antichi.
Le mense dei monaci, virtualmente impostate al concetto della mortificazione corporale, compresa la “privazione alimentare”, furono sempre parche ma, seppur frugali erano comunque con un livello d’abbondanza decisamente superiore alla media. Richiedevano inoltre un’organizzazione oculata dei cibi, attenzione all’approvvigionamento e alla gestione delle risorse e, nel tempo, hanno consentito di elaborare canoni gastronomici sapienti e, in certi casi, addirittura ricercati.
Nel complesso delle strutture strettamente legate alla religione, particolari erano le mense delle abbazie, enti quasi autonomi dalla gerarchia ecclesiale, dove i monaci, oltre a ruoli religiosi e sociali, erano dedicati al conservare e tramandare cultura.
Ma le abbazie erano anche molto attente alla cura del complesso dei beni a disposizione dell’abate o della badessa che, spesso di casato nobile, trasferivano nel monastero le abitudini, anche alimentari, della famiglia d’origine.
Stando alle “Regole” principali e più diffuse i monaci mangiavano due volte al giorno e, solo nelle festività, era consentito un vitto più ricco.
Nelle loro cucine la carne compariva raramente anche se, nonostante la ferrea regola, non mancava quando alla mensa c’erano ospiti “importanti” o i pellegrini esonerati dalle diete conventuali[2].
[1] “… a tutti devono bastare due pietanze cotte, … della frutta o dei legumi freschi, o se ne aggiunga una terza. Qanto al pane, (a ciascuno ne tocchi) un chilo abbondante al giorno, sia c’è un solo pasto che quando c’è pranzo e cena. Tutti si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli. A tutti può bastare un quarto di vino a testa (ma, pur se) il vino non è fatto per i monaci, e non è facile convincerli di questo, ci si metta d’accordo sulla necessità di bere più moderatamente e non fino alla sasietà” (dalla Regola di San Benedetto).
[2] “… il superiore rompa il digiuno per fare compagnia all’ospite, mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito”. (dalla Regola di San Benedetto).