di Grazia Caligari
Il committente Guido Nolfi (Fano 1554-Roma 1627), dopo essere stato per 38 anni legale della Curia con alti incarichi in Dataria e in altri uffici, si era trasferito a Roma con incombenze in pretura negli anni di papa Sisto V, sotto la protezione del fanese cardinale Girolamo Rusticucci, Segretario di Stato e poi Vicario di Roma, e soprattutto di Clemente VIII Aldobrandini.
Eletto pontefice nel 1592, Clemente VIII aveva quasi subito provveduto ad erigere la propria cappella di famiglia nella basilica di Santa Maria sopra Minerva, per collocarvi le tombe dei genitori, con l’intervento di architetti, plasticatori, pittori, scultori.
Anche Guido Nolfi, nel 1614, volle rifarsi ai grandi esempi papali e si rivolse all’architetto Girolamo Rainaldi, coautore della cappella Aldobrandini, per erigere in Duomo una cappella celebrativa e funeraria, nella quale i ritratti fossero accompagnati da immagini allegoriche.
L’accostamento Nolfi-Aldobrandini riaffermava, accanto all’immagine del giurista Guido l’esaltazione di due virtù cardinali (Giustizia e Prudenza) e accanto a quelle del sacerdote Cesare la Religione e le virtù teologali (Fede, Carità).
Sull’altare erano state già poste la Fede e la Speranza al tempo dell’esecuzione della pala con “Il Paradiso e l’Assunta” di Andrea Lilli (1606), un forte tema di controriforma che rilanciava il messaggio affidato nella cappella romana di Santa Maria sopra Minerva a Federico Barocci: “L’Istituzione dell’Eucaristia”, del 1594.
La Vergine Assunta è mediatrice tra la SS. Trinità e il folto gruppo dei Santi e degli Angeli.
In uno schema compositivo ancora tardo manieristico si muovono gestualità palpitanti e accensioni coloristiche, e il Paradiso è sospeso tra emozioni umane ed estasi celestiali.
Ma la scelta giusta e storicamente vincente sarebbe stata giocata circa dieci anni dopo, con la chiamata del bolognese Domenico Zampieri detto il Domenichino per affrescare le Storie della Vergine.
Il contratto veniva firmato a Roma il 23 giugno 1617 e impegnava il pittore bolognese ad ultimare i venti riquadri entro il luglio dell’anno seguente. La somma pagata dal Nolfi e citata dalle fonti antiche era altissima: 4000 scudi.
Quest’allettante dimostrazione di stima e di prestigio ci riporta ancora alla cerchia degli Aldobrandini, per i quali il Domenichino aveva lavorato, e a frequentazioni romane comuni, come la Chiesa di Sant’Onofrio.
Altro importante collegamento era la figura di mons. Giovan Battista Agucchi, consulente di Pietro Aldobrandini, con cui il Domenichino aveva collaborato tra il 1607 e il 1615 al “Trattato sul Bello Ideale” che sarà pubblicato postumo nel ’46, pietra miliare della teorizzazione classicista, con l’intento di riformare la pittura tornando alla Natura e al Bello ideale, di recuperare la grandezza del primo ‘500 e soprattutto di Raffaello.
Il Domenichino dunque rappresenta per Guido Nolfi la proiezione fanese di quel senso dell’antico tornato vicino alla realtà quotidiana, e perciò intellettuale e semplice al tempo stesso.
Gli affreschi che trasformavano definitivamente la cappella e la consegnavano alla Regina degli Angeli e a tutti i Santi erano per il pittore bolognese una felicissima occasione di creatività, che si poneva come termine di confronto con le tante opere di classicisti emiliani già presenti o ancora da venire, come Guido Reni, come Ludovico Carracci, come il Guercino e tutti gli altri.
Prestigiosissima presenza, in una delle cappelle private più importanti della regione, tanto che dopo oltre quindici anni di lavori lo stesso committente ne esaltava l’inaugurazione col libro di “Poesie di Eccellentissimi autori…”edito in Roma per il Giubileo del 1625.
Vi scrivevano lui stesso, il figlio adottivo Vincenzo, alcuni amici marchigiani e soprattutto poeti di fama come il Flaminio Bracciolini e Giambattista Marino.
Il culto di famiglia si saldava con l’esibizione di meraviglie in versi barocchi, mentre il Domenichino era all’apice di una fama che avrebbe segnato svolte storiche.
La decorazione della cappella sarebbe poi proseguita molti anni dopo la morte del committente, con l’aggiunta di altre sculture allegoriche e di angioletti sovrabbondanti, ma purtroppo una cattiva sorte avrebbe danneggiato gli affreschi tra il terremoto del 1672 e l’incendio del 1749.
Sebastiano Ceccarini li restaurava poco dopo e li ricopiava con sapientissima diligenza nel 1757, prolungando nell’ormai estenuato classicismo settecentesco quei brani di racconto tenero e forte, realistico e dolcemente astraente, come di “statue viventi” in profondità, del grande classicismo di un secolo prima.
Il linguaggio visivo che nobili e ricchi borghesi sembravano preferire, almeno a Fano, come marchio d’immagine economicamente valida, ideologicamente allineata con Roma, spiritualmente meritevole di gratificazioni ed indulgenze controriformistiche.
La “Sepoltura di Cristo” di Federico Barocci nella chiesa di Santa Croce a Senigallia, Olio su tela, cm. 295 x 187
La pala d’altare fu commissionata dalla Confraternita della Croce di Senigallia nel 1578 e fu messa in opera nel maggio 1582, alla presenza dello stesso Barocci, pittore sempre lentissimo nell’esecuzione sottoposta a continui ripensamenti e interruzioni, dovute alla sua nevrastenia e al tormento malinconico della solitudine urbinate.
E’ un dipinto fondamentale per la qualità esecutiva, frutto della piena maturità conquistata negli ultimi fervidi anni , che si concluderanno con la morte del Barocci nel 1612.
In primo piano, a sinistra, sono raffigurati gli strumenti della Crocifissione tolti al corpo di Cristo che viene trascinato, e scivola verso di noi, mentre la Maddalena ha un sussulto di pianto, gli uomini che sorreggono il corpo avanzano anch’essi in modo scivoloso, e Maria e le pie donne assistono in lontananza, vicine al monte Calvario dove le croci sono ancora issate.
Tutto è in movimento, compreso il mantello che ricopre il viso di san Giovanni, tutto diventa un’onda fisica e metafisica di emozioni e di compianto.
Sono colori mutevoli, cangianti, su cui scivolano luci come colpi d’ala, in un crescendo melodioso e musicale, come accade sempre in Barocci.
E sullo sfondo si vedono i torricini di Urbino, quasi una sovrapposizione del tema cristologico all’autobiografia dell’anima, come se il pittore esprimesse i suoi tormenti di credente e di uomo, come se la storia di Cristo racchiudesse lo strazio collettivo dell’umanità, da raccontare e confessare, nel percorso domestico delle colline e delle strade della sua città di provincia dove si era rifugiato per sempre fuggendo da Roma, dai poteri religiosi e politici della capitale.