durkheim

La “buona” scuola è la scuola pubblica

di Alberto Pellegrino

Il problema di avere un sistema scolastico efficiente e valido sotto il profilo pedagogico e didattico è stato sempre vivo negli Stati democratici, tanto che già nel Settecento Kant affermava che “l’arte dell’educare e quella di governare” erano le scoperte più difficili da attuare. Il filosofo tedesco aveva compreso che il riconoscimento del diritto universale all’istruzione e all’educazione avrebbe imposto all’ordinamento statale di guidare ogni  individuo a diventare il cittadino di uno Stato democratico. Il problema della formazione del buon cittadino attraverso un processo educante che avesse come obiettivo la sua libertà, cos’ rilevante in Kant e Rousseau, ritorna ad assumere rilevanza nel primo Novecento con Emile Durkheim  (L’educazione morale, 1902) e John Dewey (Democrazia e educazione, 1916), i quali giungono alla conclusione che la formazione di un futuro cittadino non può essere un vuoto concetto formale, ma deve essere una sfida concreta da vincere attraverso l’elaborazione teorica e l’attuazione sperimentale di modelli scolastici e metodi d’insegnamento appropriati, capaci di attivare quei processi educativi necessari alla tutela e allo sviluppo di una società democratica. Il problema non è di facile soluzione, perché l’introduzione dell’obbligo scolastico universale ha imposto allo Stato la necessità di definire stili di comportamento e valori capaci d’incidere positivamente sulla formazione delle generazioni che si succedono nel tempo, tenendo conto che la scuola può avere un effetto positivo sulla democrazia quando promuove le capacità cooperative e il rispetto di stessi, ma può avere effetti negativi qualora indirizzi verso la sottomissione all’autorità e al conformismo morale.

Nella seconda metà del Novecento si andata però attenuando l’idea di uno stretto rapporto tra democrazia ed educazione, cioè che una democrazia vitale debba generare, per mezzo di processi educativi aperti a tutti, i propri fondamenti morali e culturali. Si è diffusa la convinzione che lo Stato di diritto democratico ha limitate capacità di rigenerare le sue condizione morali e culturali attraverso l’istituzione scolastica; si è arrivati a mettere in dubbio che i processi educativi gestiti dallo Stato siano in grado di trasmettere quei comportamenti e quei valori (pratiche morali, volontà cooperativa, attitudine alla tolleranza, orientamento al bene comune) capaci di promuovere il vivere democratico. In nome del principio di neutralità e imparzialità dell’azione educativa dello Stato, si è voluto porre un limite al principio che l’istruzione statale debba trasmettere i valori fondanti della democrazia, per cui il diritto dei genitori di trasmettere ai figli i propri valori e le proprie convinzioni dovrebbe fermarsi sulla soglia della scuola, in modo che gli alunni possano apprendere stili di comportamento capaci di avviarli sulla strada della partecipazione democratica. Le resistenze dei genitori e di alcune forze politiche, legate al pensiero liberal-conservatore, tendono invece ad affermare il principio della neutralità dello Stato nei confronti dell’insegnamento scolastico con l’esclusione dell’educazione ai valori democratici che spetterebbero alle famiglie e alle istituzioni politiche, per cui gli insegnanti non dovrebbero essere considerati i rappresentanti di uno Stato democratico di diritto, ma i delegati dei genitori. Questo concezione della scuola pubblica, vista come un’entità eticamente neutrale, potrebbe favorire la sua sostituzione con una molteplicità di scuole private e confessionali, privando la società democratica degli unici strumenti che possiede per trasmettere suoi fondamenti morali, mettendo così in discussione le condizioni di esistenza della stessa democrazia.

I profondi cambiamenti verificatesi nel mondo sociale ed economico hanno inevitabilmente influito sui compiti della scuola che deve tenere conto dell’enorme crescita del numero di alunni, della corsa economica alla flessibilità e della ricerca alla prestazione competitiva; la scuola deve  inoltre tenere presente le conseguenze della rivoluzione digitale delle comunicazioni e la crescente eterogeneità della popolazione dei paesi occidentali. Questo insieme di fenomeni non hanno però reso inattuali le teorie di Durkheim e Dewey, perché il compito dello Stato, attraverso l’educazione pubblica, rimane quello di far diventare ogni alunno un cittadino consapevole del proprio valore, capace di esercitare i propri diritti politici. Prima della qualificazione professionale e del superamento degli svantaggi culturale di origine familiare e sociale, viene quindi l’educazione politica come componente centrale dell’autoriproduzione della democrazia.

In tempi di crescente distacco nei confronti della politica e del possibile avvento di una postdemocrazia, una scuola democratica deve garantire una vera uguaglianza, intervenendo concretamente sulle disuguali condizioni di partenza; deve garantire un’istruzione di qualità per tutti; non deve imporre particolari valori e visioni del mondo, ma trasmettere i valori della libertà, della democrazia e della pari dignità di ciascuno. Se è opportuno rigettare l’idea di una “scuola di classe”, sarebbe tuttavia assurdo assimilare la scuola a un’azienda, una concezione che è stata rifiutata nella teoria e nella pratica da tutti i paesi europei più avanzati. La scuola di ogni ordine e grado deve rimanere un servizio pubblico che non può basarsi sul binomio costi/ricavi, perché non produce profitto, ma fornisce un’adeguata formazione a ogni cittadino. Una scuola, fondata su una concezione aziendalistica e concorrenziale, preoccupata di far quadrare i bilanci, decisa a fare un sostanziale ricorso a investimenti privati, può provocare dei pericolosi squilibri nell’intera società.

La nuova legislazione scolastica italiana non ha previsto purtroppo nessun modello educativo autenticamente riformista e democratico, soprattutto preoccupata della sistemazione amministrativa del personale docente, della revisione del sistema remunerativo , della formazione professionale dei docenti, del reperimento delle risorse finanziarie. Ogni comunità scolastica veramente democratica vive e prospera sulla collaborazione, la partecipazione e le competenze di tutte le sue componenti, per cui assume un sapore vagamente umoristico fare ricorso alla figura di un dirigente scolastico concepito più come un manager addetto a far quadrare i bilanci e a esercitare controlli sull’attività didattica, invece di essere  un esperto educatore come lo sono stati presidi e direttori didattici che, senza svolgere compiti ragionieristici, fondavano la loro presenza sul prestigio educativo, sulle qualità umane e sulle capacità professionali.  Una scuola all’altezza del presente momento storico deve basarsi su un modello educativo molto più complesso e impegnativo di quello attuale, un modello che richiederebbe il coinvolgimento e la confluenza di esperienza culturali e professionali diverse, tali da definire contenuti programmatici, obiettivi e metodologie che consentano un ritorno alla confluenza tra politica ed educazione con lo scopo di ridare vigore alla democrazia e all’intera società italiana.

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