Inventario delle cose certe: esperienza vissuta e poesia in Joyce Lussu

di Alfredo Luzi

Il primo problema che ogni critico letterario si trova a dover affrontare, quando s’imbatte nell’opera narrativa e poetica di Joyce Lussu, è quello di collocare la sua scrittura nel sistema canonico della storiografia letteraria ufficiale. Infatti, la personalità della scrittrice è tale da non poterla inquadrare in un movimento, in un modello stilistico, in una proposta retorica codificata. E questo perché  Joyce utilizzava il rapporto tra esperienza vissuta e scrittura  con modalità trasgressive rispetto alla norma tradizionale. Ho cercato dunque di individuarne le caratteristiche, facendo riferimento, sul piano del metodo, al testo di Dilthey, Esperienza vissuta e poesia ( Genova, Il Melangolo, 1999 ), in  cui egli studia in che modo l’erlebnis si trasformi in occasioni di scrittura poetica, in suggestioni mitopoietiche, e spiega per quali ragioni solo alcuni eventi autobiografici assumano valenze letterarie, mentre altri si perdono nella attualità delle vita quotidiana.

Una prima caratteristica che corrisponde perfettamente all’ atteggiamento culturale, politico e sociale tenuto da Joyce con coerenza per tutta la vita, credo che possa essere questa: la poesia era per lei energia, cioè un forza presente nell’esistenza. Scrivere poesia significava dunque trarre dalla vita la misteriosa, oscura forza che fa della parola poetica un linguaggio privilegiato, in cui si concentra la libertà umana del comunicare divenendo spesso monito sociale e talvolta profezia. La scrittura rispetto alla dimensione evenemenziale va intesa come una procedura per scoprire la dinamica che c’è nella storia, dando senso agli eventi, nella duplice accezione, sul piano strettamente letterario, di assegnazione di legittimità a ciò che viene scritto, e, sul piano filosofico, di tentativo ininterrotto di vincere la componente di casualità che è presente nella diacronia dell’esistente. L’uomo ha come suo primario compito antropologico quello di sforzarsi di trovare un senso ai fatti, di trasformare la processualità casuale in storia, individuando negli eventi una concatenazione. Per riassumere,  Joyce giunge alla definizione testuale secondo una macrosequenza le cui fasi sono costituite da: esistenza, scrittura, storia, ermeneutica. La Lussu imposta il suo laboratorio linguistico su un asse binario, che è quello del rapporto tra verità e falsità. I due lemmi sono inscindibili. Dipende dalla capacità che ha il poeta di individuare negli eventi che apparentemente possono sembrare falsi, menzogneri, e tra questi c’è anche l’uso della parola, il fare poesia, quanto invece c’è di veritativo. Questo attitudine teoretica è già intuibile nel titolo dell’opera da me presa in esame. Nella parola inventario si può leggere l’atteggiamento mentale dello scriba, del modello archetipico di colui che umilmente trascriveva i fatti, ma dentro di sé cullava l’utopia, la speranza che attraverso la registrazione dei fatti egli potesse giungere ad una dimensione profetica, individuare in quale evento si nascondesse una forza kerigmatica, la rivelazione, il disvelamento del mistero che invece resta nelle parole della cronaca, appunto, inventariata. Ma inventario di cosa? Delle cose certe, cioè delle cose sicure, di cui abbiamo verificato, vichianamente, la certezza. Ma il fatto è che per Joyce le cose certe sono da una parte i fatti, gli atti compiuti dagli uomini nel loro cammino, sulla base della lezione storicistico-marxista,  e dall’altra parte ciò che viene raccontato, le parole con cui i fatti vengono registrati sulla pagina. In questa prospettiva è forse interessante osservare che questo volumetto di poesia presenta una struttura compositiva in cui il primo testo e l’ultimo hanno un rapporto speculare. Nel primo Joyce dichiara in qualche modo la sua fiducia nella poesia. Ma la poesia non è qualcosa di autoreferenziale. Cioè non basta scrivere in versi per autodefinirsi poeti. Deve essere il pubblico a riconoscere questo ruolo,legittimando la funzione sociale del poeta. E il richiamo di Joyce assume un particolare peso in un ambiente come quello sangiorgese, troppo chiuso nel suo provincialismo in cui sguazzano pseudoartisti di ogni genere. Leggiamo:

 

Che cos’è la poesia?
Non è un problema
difficile da risolvere.
Basta andare in giro con un pezzo di carta
su cui sono tracciate parole
in righe diseguali
e chiedere al primo che passa
scusi, legga, le sembra una poesia?
Se il primo passante
è recalcitrante
si prova con un altro
e alla fine magari con qualche parente
vicino o lontano
con qualche conoscente o amico devoto.
Uno si trova sempre
che dice: è una poesia
certo, che vuoi che sia,
è bella, non c’è male.
Dopo questa verifica
si può andare a riempire un altro foglio
di righe disuguali
e cominciare da capo.
[1]

Quindi il volume si apre con un atto di fiducia, ironicamente desacralizzato attraverso una oscillazione gnoseologica che ha come punto di riferimento centrale il dubbio, la viscosità delle parole intrecciate di verità e falsità, per poi chiudersi invece sulla dimensione menzognera della poesia, in quanto invenzione. Ma proprio perché è così sublimemente falso, il messaggio della poesia diventa profondamente veritativo, superando i limiti dell’evento fattuale e proponendosi come rimbaudiana illuminazione, intensa ma intermittente e precaria:

La poesia
è una bugia
che sembra più vera del vero
più vera della politica
della psicologia
e anche della matematica
è una menzogna
detta con estrema convinzione
e passione
uno specchio trasparente
fragilissimo e deformante
che appare solido come la tavola
cui s’aggrappa il naufrago
un catarifrangente
notturno che brilla solo se lo illumini coi fari
e subito sparisce nel buio.
[2]

Che cosa sottende  dunque questa dichiarazione di poetica di Joyce? E’ indubbio che ci sia una grande fede nell’artefatto, in ciò che viene fatto con le mani, prodotto dall’umanità anche attraverso l’uso della scrittura. Attraverso la poesia, che è l’artefatto più sublime le categorie del tempo e dello spazio vengono collocate all’interno della parola. Non è un caso che in questo ultimo testo si possa individuare come parola chiave quello dello “ specchio trasparente” inteso, nella sua assimilazione alla tavola del naufrago, come simbolo di salvezza, ma anche, in senso letterale, come luogo della speculazione, del conoscere e del conoscersi.

Un altro aspetto che vorrei sottolineare è quello della idea della poesia come viaggio, come ricerca, nello stesso tempo processo esistenziale nel tentativo di bloccare lo scorrere del tempo, di trattenere quelle tracce, quei segnali mitopoietici proposti dalla realtà quotidiana ma anche viaggio come cammino nella scrittura in cui l’io del poeta si muove attraverso la tessitura della testualità dei versi. Questa concezione della poesia come quête comporta la conseguenza stilistica di una tendenza narrativa, prosastica. In sintesi, in questo volumetto, Joyce offre molto spazio alla cronaca dei fatti, o parlando di eventi storici di grande rilievo, come ad es. l’eccidio di Marzabotto, o indicando per nome e cognome alcuni personaggi portati all’onore della pagina, o ponendo attenzione a gesti umili ( la donna che porta il cibo ai maiali )  e ai fenomeni atmosferici.

Poeticamente la Lussu  è stata una grande pittrice, descrivendo albe, tramonti, giornate, notti. E chi conosce i luoghi dove ha abitato fa presto a collocare queste descrizioni nello spazio-tempo di San Tommaso alle Paludi, dove giunge il riverbero della luce marina o dove la poetessa s’attarda a contemplare il sopraggiungere delle ombre sulle colline circostanti. L’uso insistito della cronaca, l’attenzione alla banalità, sono giustificati dal tentativo di dare una carica autoironica alla propria poesia, di diffidare della seriosità dell’atteggiamento gnomico che viene spesso assunto da chi si sente poeta. Sia sufficiente a titolo di documentazione far riferimento al testo di Per fauste nozze, il cui attacco assume tonalità di completo rovesciamento rispetto alla tradizione settecentesca ed ottocentesca dei componimenti d’occasione:

Se fossi un calzaturiere di Montegranaro
ti regalerei un paio di stivali
favolosi di pelle morbidissima
se fossi un antiquario
avrei tenuto in serbo un prezioso scrittoio
Luigi quindici o sedici o Filippo per dartelo
ma essendo solo un’iscritta al sindacato scrittori
non posso darti che un po’ di parole
scritte a macchina su un foglio normale
in occasione dei tuoi sponsali
o nozze o matrimonio che dir si voglia.
[3]

Per poi avviarsi verso un elogio molto pragmatico della vita matrimoniale che però nasconde, ancora una volta, il desiderio di conoscenza della verità e il rifiuto dell’inganno perpetrato ogni giorno dalla civiltà mediatica:

Però debbo confessarti
in seguito a mia esperienza quarantennale
che si sta molto meglio in due che da soli
si dorme meglio si mangia con più appetito
si lavora con più convinzione
purché la sera si abbia voglia di discutere
il mondo e la giornata trascorsa
anziché guardare la televisione.
[4]

La poesia di Joyce contiene una forte carica contestataria, in linea con la psicologia della autrice, convinta sostenitrice della battaglie per la liberazione della donna, e in particolare è caratterizzata da un forte tasso di antiromanticismo. Ma è interessante constatare come Joyce rielabori e rovesci, ad esempio, il tema della frantumazione della luna,che già Leopardi aveva affrontato nell’idillio Lo spavento notturno. Il terrore di Asceta che sogna una luna che si distacca improvvisamente dal cielo per cadere in terra si trasforma nella consapevolezza che solo attraverso una battaglia per le pari opportunità tra uomo e donna si potrà giungere a scoprire in piena libertà quella che appunto negli anni di femminismo emergente era stata chiamata “l’altra faccia della luna”. Certo, come avviene nel testo sotto riportato, la luna si è rotta, ma ciò è dovuto al fatto che le donne hanno ormai rifiutato i chiari di luna, non sono più disposte “a tessere la tela dell’amore devotamente”:

La luna si è rotta.
Si è rotta in cinque pezzi che galleggiano nel cielo
squallidamente
come cinque cocci di scodella.
Era una luna piena e luminosa
Che aveva un’aria abbastanza felice.

Lì per lì ho creduto che i cosmonauti e i satelliti
artificiali l’avessero offesa in qualche modo.
Ma poi ho capito ch’era tutta colpa mia.
La guardavo fissamente con pensieri tristissimi e scomodi
e tutt’a un tratto – trac – si è rotta in cinque pezzi
quasi senza rumore.

Certo sono i miei pensieri che l’hanno urtata
in un momento in cui si sentiva particolarmente fragile.
Questi pensieri delle donne liberate sono una cosa complicata
e la luna ch’è tonda e semplice ci si trova male.
[5]

Uno dei temi  ricorrenti nei testi poetici di Joyce è quello della corporeità. L’isotopia del corpo come luogo delle fecondità, e insieme come fisicità individuale del soggetto la cui vita equivale ad un misterioso viaggio di cui non si conosce la meta, interrotto ad esempio per i bambini deportati a Buchenwald le cui scarpine rosse assumono il significato emblematico di una esistenza stroncata nel suo futuro, è molto frequente in questi versi. Il corpo è l’emblema della fertilità femminile, è il sacello della sacralità della vita, ma corpo è anche cadavere, salma, letteralmente sagoma, ciò che resta nella fissità della morte dei bambini uccisi a Marzabotto.

Sul piano più strettamente teoretico nelle poesie di Joyce è riscontrabile una dialettica degli opposti, configurata nel rapporto tra pesante e leggero. L’idea del peso, che in qualche modo risente delle riflessioni di Carlo Michelstaedter e del pensiero filosofico del primo Novecento, è collegata all’esistenza mentre la leggerezza induce il principio dell’assoluto, di ciò che letteralmente è sciolto, libero da ogni freno esistenziale, e favorito nella sua libertà dalla presenza dell’amore:

Continua per te la fatica diurna
di ieri di oggi
pesante è la brocca che porti dal fonte
pesante il cammino in salita
dai ciottoli tondi
pesante la cesta di gialla farina
che stacci
pesanti quei tuoi fratelli aggrappati
ai tuoi bracci
eppure ti senti leggera
leggera
i gesti che compi
son d’oggi di ieri
le stesse parole
tu dici
non muta la piega del viso abbronzato
dal sole spietato
nel cavo del raro sorriso
le mani tue dure operose
non hanno mai posa
eppure sei lieve sei lieve
sei nuova sei nuova
sei come una nuvola rosa
sospesa nel cielo
perché quel ragazzo ricciuto
ti ha guardato e sorriso
[6]

In altro testo, la connessione tra esperienza vissuta e poesia ed energia è riassunta in due versi il cui peso gnomico è evidente:

Chi ha detto che la vita è breve?
Non è vero niente
La vita è lunga quanto le nostre azioni
generose
quanto i nostri pensieri
intelligenti
quanto i nostri sentimenti
disinteressatamente umani.
La vita
è infinita.
[7]

E in questa prospettiva di grande passione per la vita come una serie ininterrotta di eventi che nel loro farsi costituiscono il nostro passato ma nello stesso tempo garantiscono fino alla morte la presenza di un futuro è significativa una poesia in cui Joyce gioca, con la solita graffiante ironia, sul significato della parola “successo”e all’amico che le contesta il fatto di non potersi considerare una donna di successo perché “i tuoi libri hanno scarse tirature/ raramente hai accesso/ alle televisioni/ il sociologo Alberoni/ non ti ha mai citata”, risponde

“ Senti, sia come sia, ti confesso
che non m’interesso molto al successo
ma appassionatamente al succede
e al succederà.
Il successo è un paracarro
una pietra miliare
che segna il cammino già fatto.
Ma quanto più bello il cammino ancora da fare
la strada da percorrere, il ponte
da traversare
verso l’imprevedibile orizzonte
e la sorpresa del domani
che hai costruito anche tu…”
[8]

Joyce, anche tramite  questi divertissements etimologici ,ancora per quanto riguarda il rapporto verità-falsità, è consapevole del limite della parola, che è letteralmente parabola, approssimazione, qualcosa che si avvicina all’essere, ma non è capace di definirlo in assoluto.

Proprio il finale della poesia che dà il titolo al volumetto è una conferma della consapevolezza con cui Joyce affronta leopardianamente la “lingua mortal” della poesia, certo approssimata ma non per questo eludibile e condannata al silenzio. La parola, pur nei suoi limiti ermeneutici, è l’unico strumento di potere in mano al poeta, e nessuno può togliergli il diritto-dovere di parlare:

Ricominciamo l’inventario
senza farmi mettere in crisi
da chi mi dimostra che tutto quel che dico
e scandalosamente approssimativo
e che faccio del vocabolario
un uso piatto e abborracciato.
Posso usare soltanto parole
tra le quali mi sento a mio agio.
Posso soltanto parlare.
Perciò parlo.
[9]

Un altro aspetto oppositivo che è da evidenziare nella poesia della Lussu è quello relativo al rapporto tra soggettività e collettività. L’identità del soggetto per la nostra amica si riconosce attraverso l’alterità, il soggetto è tale perché si specchia e si confronta con l’altro da sé. Lévinas, filosofo di tutt’altra estrazione culturale, ha precisato che è l’altro che ci permette di conoscerci e noi abbiamo paura dello straniero perché non lo conosciamo ma se lo conoscessimo scopriremmo che egli è noi stessi.Il nostro io, per Joyce, può essere percepito solo se tutto ciò che facciamo è proiettato verso la socialità, verso un tu collettivo:

Ė probabile che tutto ciò che facciamo sia soltanto in odio alla solitudine
non solo quando guardiamo un uomo con la speranza che il suo sguardo risponda
ma anche affrontando il plotone d’esecuzione per una giustizia riconosciuta
è probabile che lavoriamo soltanto perché qualcuno ci riconosca un cervello
perché qualcuno identifichi come nostre le mani che costruiscono un oggetto
altrimenti non saremmo affatto sicuri di avere delle mani e un cervello
se nessuno camminasse al nostro fianco non sapremmo che camminiamo
se nessuno ci parlasse non saremmo capaci della parola
se i nostri dati anagrafici non interessassero nessuno
non saremmo nemmeno nati.
[10]

Certo Joyce conosceva i meccanismi occulti tra parola e potere. E forte è la denuncia che ella lancia, con la ormai note forza del suo sarcasmo, contro i potenti che fanno della comunicazione uno strumento di oppressione e di inganno:

Signor Presidente
Signor Governatore
che potete con una sola sillaba
decidere
se un vostro simile vive o muore
io non protesto e non contesto
la vostra decisione
perché ho saputo
fin da piccola
che i ricchi hanno
sempre ragione.
Dietro la vostra sillaba
c’è una complessa organizzazione
che coinvolge nella vostra scelta
un’infinità di persone.
[11]

L’unico strumento per sciogliere i lacci dell’ingiustizia e del potere è l’amore, un bene prezioso che l’uomo deve tutelare e far vivificare giorno per giorno:

chi di voi dirà
siccome iersera mi amava
mi amerà?
chi andrà a fronte alta
sotto il sole alto
pensando all’altro
con la certezza solare
di saper amare
di saper farsi amare?
è sempre solo un baluginare
tremante ai margini del giorno
un tramontare un albeggiare
l’amore non ha mezzogiorno
[12]

E come il volume si era aperto  sull’immagine dei piedini del figlio ancora infante la cui vita è proiettata verso il futuro (“ma quale mai sarà il cammino/che ferirà questi piedini rosa?”), così si chiude sulla esaltazione generazionale e genetica, attraverso il quale si esalta il valore profondo dell’amore, condensato nella serialità di lemmi in cui si concentra l’essenza dell’esistere:

Padre madre sole
padre madre figlio colore
vita calore amore
felicità.
[13]/a>

[1]             Inventario delle cose certe, Fermo, Livi, 1998, p.9
[2]             Ibidem, p.115
[3]             Ibidem, p.86
[4]             Ibidem, p.87
[5]              Ibidem, p.14
[6]               Ibidem, p.17
[7]               Ibidem, p.54
[8]               Ibidem, pp.24 -25
[9]               Ibidem, pp. 45 – 46
[10]            Ibidem, p.47
[11]            Ibidem, p.57
[12]            Ibidem,p.80
[13]            Ibidem, p.109

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Posted in Scrittori ed Editori marchigiani di ieri e di oggi.