Colpa e pietà in “Frana allo Scalo Nord”

di Alfredo Luzi

Betti, partendo dalla sua esperienza di magistrato,  abituato a penetrare nei meandri dell’intreccio tra responsabilità, colpa, omissione,  e trasformando in strutture dell’immaginario le icone della realtà ( dinamica di cui parla Dilthey nel suo Esperienza vissuta e poesia , in cui vengono evidenziate le connessioni tra autobiografia e scrittura ), propone nelle sue opere un’idea di teatro come luogo nel quale si compie, per via mitopoietica, un processo , un iter lungo il quale si condensa la dimensione tragica dell’esistere, inteso sia come procedimento, sviluppo e concatenazione di eventi, sia come procedura, scansione temporale dell’istruttoria giudiziaria.

E’ questo un cammino verso la scoperta dell’uomo e talvolta del divino, che parte dall’analisi dei fatti disaggregati per giungere a considerazioni di carattere etico che coinvolgono il soggetto e la collettività di cui fa parte.

Frana allo Scalo Nord  non sfugge a questa impostazione, ne documenta anzi la funzionalità strutturale, nel testo e nella rappresentazione.

Del dramma, scritto nel 1932, pubblicato il I° gennaio 1935 sulla rivista “Scenario” e rappresentato per la prima volta il 28 novembre 1936 al teatro “Goldoni” di Venezia dalla compagnia Palmer-Almirante, si conoscono due antecedenti paratestuali, che confermano l’adozione da parte dell’autore di una tecnica di astrazione e di condensazione che liberi progressivamente la scrittura teatrale dalla zavorra biografica e cronachistica, che trasformi la casistica giuridica nella quale il magistrato Betti si imbatte in occasione tematica a cui dare una dignità estetica.

Infatti nel 1920 Betti pubblica a Camerino un saggio giuridico dal titolo Considerazioni sulla forza maggiore come limite di responsabilità nel vettore ferroviario , in cui affronta il problema della colpa individuale nel caso di una inondazione con cedimento di terreno lungo una scarpata della linea ferroviaria . Da questo studio, con il quale partecipa al concorso per avvocato delle Ferrovie dello Stato, egli trae, a distanza di più di dieci anni, il nucleo centrale del rapporto dialettico tra responsabilità soggettiva e collettiva e procede alla stesura del manoscritto ( conservato presso l’Archivio Betti, all’Istituto di Studi Pirandelliani ) intitolato Franamento in via Suez , considerato da Pasquale Tuscano, “l’imprescindibile canovaccio del dramma definitivo, che aiuta a capire, meglio di qualunque commento, uno dei capolavori del Betti e del teatro del nostro secolo” ( P. Tuscano, Morale comune e responsabilità collettiva nell’elaborazione di Frana allo Scalo Nord: dal racconto del manoscritto inedito al dramma, in Ugo Betti letterato e drammaturgo, Macerata-Camerino 1996,p.100 ).

Il legame tra professione e creazione, pur occultato nel lavorìo di simbolizzazione dei personaggi e degli eventi, riemerge come traccia di un cordone ombelicale che non è mai stato completamente tagliato.

Si pensi al fugace cenno, all’inizio del dramma, al desiderio di promozione in carriera del consigliere Parsc, proprio mentre inveisce, incatenato nella sua quotidianità, contro “questo maledetto processo”: (“Eh! Eh! Se questa volta….vorranno favorirmi….” (Atto I, scena I ).

E, nel 1944, il rovello di un altro personaggio magistrato, il Primo Giudice Croz  che teme  “le pugnalate” dei colleghi “alla vigilia della promozione” ( Atto I, scena I), emblema del malessere del sistema giudiziario, tornerà ad essere rappresentato in tutta la sua forza drammaturgica nel lavoro forse più famoso di Betti, Corruzione a Palazzo di Giustizia.

O si faccia attenzione ad alcuni incisi autoironici sulla professione di magistrato e di drammaturgo, messi in bocca ad alcuni personaggi,  funzionali barre di raffreddamento della pulsione autobiografica (“Crede che la giustizia abbia tempo da perdere”; “Eccellenza, è tutta una commedia”; “Su, su! Non si sa mai, con le cause”; “il tentato suicidio: la commedia!”)

D’altronde la struttura delle sequenze che compongono il testo di Frana allo Scalo Nord  è impostata sul modello dell’istruttoria giudiziaria. Nel primo atto si compie il rito degli interrogatori dei testimoni e si individuano le richieste di perizia per l’acquisizione delle prove, nel secondo atto si effettua il sopralluogo sul cantiere dove è avvenuto l’incidente, nel terzo atto si ritorna nelle aule del tribunale per emettere la sentenza. Senonché nel lungo e intricato cammino verso il verdetto, il libero convincimento del giudice, da cui dovrebbe scaturire il giudizio di condanna, subisce un progressivo smontaggio motivazionale, determinato dall’ascolto di testimonianze che sono tragici documenti di vita vissuta nel dolore sia da parte dei poveri che da parte dei ricchi, dall’incontro con i morti nella sciagura che  attestano anche nei gesti la loro condizione di sofferenza, dall’irrompere delle considerazioni sociologiche e delle ragioni etiche nella ricerca delle responsabilità. Alla fine, dopo un continuo confronto tra soggetti favorito proprio dal rito indiziario dilatato a reciproco esame di coscienza e a meccanismo di auto-giudizio, il consigliere Parsc abbandonerà ogni ipotesi di colpevolezza per far trionfare, anche nel sistema giudiziario, la pietà umana.

Frana allo Scalo Nord è, sul piano sociologico, un testo in cui si realizza, per dirla con Lukàcs, “il rispecchiamento dinamico e critico della realtà”. Negli anni dell’imperante fascismo, verso la cui censura si premunisce precisando, nella didascalia iniziale, che “l’azione si svolge in una città straniera, fra gente del luogo ed emigrati di vari paesi. Ai nostri giorni.”, Betti tratteggia il conflitto sociale tra borghesia capitalistica e operai che stanno acquisendo una coscienza della loro condizione di proletari, ma condannati dalla logica del profitto e dello sviluppo a subire il sopruso derisorio di Gaucker ( “Bert- Eccellenza, gli operai si vedevano sopra la morte. Lo sa, questo signore, che rispondeva ? “Arrangiatevi” ; Gaucker –Non è vero! ; La donna dal bambino (urlando) Arrangiatevi! Arrangiatevi! Sono morti”). E l’esortazione in cui si legge tutto il disprezzo del padrone per gli emigranti lavoratori riecheggerà più volte dalla folla degli astanti, come un lacerante ritornello che cadenza il ritmo dell’ultima scena del I° atto, a conferma della denuncia morale nei confronti di Gaucker. La stessa scelta di assegnare ai personaggi più umili e diseredati nomi italiani mentre quelli che rappresentano il potere hanno nomi stranieri, vagamente nordici ( così come hanno nomi nordici le figure di Corruzione al Palazzo di Giustizia , dramma che si apre con una didascalia quasi identica: “In una città straniera ai nostri giorni.” ) conferma la consapevolezza  sociale dello scrittore camerte, sempre premuroso difensore dei deboli e degli inermi.

La prima ingiustizia si realizza nel momento in cui l’appartenenza ad una classe, che è una classificazione socio-economica, viene strumentalizzata come parametro etico assoluto. E’ quello che fa Gaucker quando cerca di attribuire la responsabilità della frana agli operai, considerati “generalmente fannulloni, canaglia”, mentre egli si autoassolve perché l’aver studiato da ingegnere lo autorizza a dichiararsi “una persona per bene”, “un buon uomo”, “un galantuomo ”. Ma l’inganno, insito nello spirito di analisi di una borghesia che identifica il bene nella ricchezza e il male nella povertà, viene svelato quando il personaggio Menjura, chiamato a confermare il giudizio, bolla il padrone con la qualifica di “gramo” e racconta l’episodio del gattino schiacciato sotto le sue scarpe. La gravità del gesto è sottolineata dalle didascalie che indicano il sopraggiungere del silenzio, dovuto all’impatto emotivo che il racconto ha sul pubblico che si accalca nella sala del tribunale, in un ambiente fino ad allora dominato dai rumori, quello sordo del mormorio dei presenti e quello lacerante degli urli delle persone coinvolte nella disgrazia.

Ma quando Menjura  ricorda  a Gaucker che gli operai lo chiamavano “faccia macchiata”, quasi che l’angioma sul viso fosse l’icona di una labe morale, secondo un meccanismo tipico della cultura popolare che connette difetto fisico a difetto etico, questi accenna ad un tentativo di suicidio e, come messo all’improvviso di fronte ad uno specchio, dopo un incontro con la moglie, riconosce di essere “stato un omaccio, un padrone cattivo” e di aver provato molta vergogna pensando ai morti seppelliti dalla frana (“mi sono visto anche io, come se mi si fosse spaccata una crosta, capite ? Sono….una cosa brutta”).

Per contrasto, Giuseppetti, il manovale, nel confronto con Gaucker, all’invito del consigliere Parsc (“Guardatevi un po’ in faccia”) risponde con orgoglio: ”Eccellenza, dico la verità. Tengo la faccia scoperta”.

Il tema della macchia come metafora della presenza del male trova il suo correlativo oggettivo nella spazialità dei primi due atti, ambientati o nella polvere del tribunale o nella nebbia, nel fango, nella pioggia in cui è avvolto il paesaggio dove è avvenuta la frana, e dove il terreno è marcio e le “poche tavole, marce”,  mentre, nel terzo atto, in cui all’ombra succede “una illuminazione intensa, verticale” a simboleggiare il momento supremo del giudizio, della nudità della verità,  la percezione della colpa si condensa nel gesto nevrotico di Nasca, la sepolta viva, che continua a pulirsi la gonna sporcata dalla terra franata, quasi volesse recuperare una innocenza perduta durante una esistenza che l’ha appunto “inzaccherata, infangata”.

La dimensione spaziale è caratterizzata da una compresenza di interno/ esterno, mentre quella temporale è cadenzata dall’alternanza tra rumori e silenzio.

Nel I° atto l’escussione dei testimoni si svolge tra urla, risa, brusii, brontolii, fin quando i ritmi della vita quotidiana organizzata hanno il sopravvento (“Il pubblico mormora e rumoreggia, il chiasso è al colmo. D’un tratto si sente un colpo lontano: è il cannone di mezzogiorno. Tutti, come in un ballo meccanico, si fermano a mezzo, s’azzittano, cavano fuori l’orologio, poi si alzano con ordine, cominciando ad avviarsi verso l’uscita”). Nel II° atto invece la percezione del passare del tempo e della realtà esterna è data dal “fischio prolungato di un treno”, da “un ballabile, che poi si risentirà a momenti per tutto l’atto”, mentre si fanno sempre più frequenti i silenzi di Gaucker, spinto dall’interrogatorio e dal confronto con i testimoni ad un esame di coscienza che lo porterà se non a riconoscersi responsabile sul piano giuridico a giudicarsi moralmente colpevole, proprio in quanto componente di una collettività. Nel III° atto il silenzio si dilata fino a dominare, con le lunghe pause durante le quali il consigliere Parsc, attanagliato dal dubbio e costretto comunque ad emettere un verdetto, cerca faticosamente le parole più adatte a giustificare un sentenza di assoluzione.

Tutto il dramma è attraversato da un climax, da un crescendo tematico e problematico, che ha come finalità il passaggio dalla ricerca della colpa individuale alla pietà collettiva per tutti gli uomini, sottoposti alla forza del male, alla sofferenza, pronti ad espiare, vivendo, il segreto del proprio destino.

La processualità giuridica del caso si complica man mano che l’indagine avanza. Parsc all’inizio è convinto di non dover affrontare “nessuna questione….. difficile”. Ma pian piano il testimone miope, che dunque vede molto bene da lontano, insinua il dubbio che, se il giudizio deve nascere dalla ermeneutica degli eventi, è necessario spostare la prospettiva sul sistema sociale (“Non perdete di vista le questioni generali, caro signore” : atto I, scena V; “non pensate mai alle questioni generali, al complesso?: atto II, scena I; “Voglio dire, signore, che qua bisogna guardare il complesso. Questo processo non si può risolverlo a sé, isolato”: atto II, scena V). Egli avvia così una denuncia sul mito del progresso industriale e capitalistico, sulla frenesia del mondo moderno di produrre, che è uno degli elementi di attualità del testo bettiano , letto oggi da un pubblico che ben conosce il mito del ‘ tempo reale’ e contro il quale uno scrittore come Kundera propone l’antidoto della lentezza.

E non manca, in Frana allo Scalo Nord, qualche icona della nevrosi contemporanea, tratteggiata nei tic di alcune figure, negli immotivati sbalzi di registro di gesti e di parole, nelle iterazioni ossessive, negli scoppi di risa del pubblico o di qualche personaggio, che contrastano con l’ambiente cupo del tribunale o con lo scenario di morte del luogo dove si è compiuta la disgrazia.

La didascalia cronotopica (“Ed ecco comincia, non lontano, l’ululo d’una sirena; poi altre sirene di altre fabbriche con un crescendo impressionante”) apre  la sequenza dell’analisi sociale di una collettività condannata alla legge del profitto. Il soggetto non è più colpevole ma vittima, essendo egli disumanizzato, un numero in un ciclo produttivo crudele ed aberrante. Le riflessioni del testimonio miope si reggono su una rete isotopica che sposta l’obbiettivo del giudice dall’individuo alla società. Ogni uomo è dentro un incastro, un rullo, un torchio, un ingranaggio,  stritolato da un meccanismo ben combinato, lucido….veloce. Anche il conflitto generazionale tra Kurz e il figlio Guido che lo accusa (scena II del III atto) nasce dunque dalla vicenda umana che ci accomuna (“ Kurz padre -…Voi! Siete stati voialtri a calcarci giù nella terra: a me e a quegli altri ! Voi! Avete tutti molta fretta, no? Una fretta terribile…..Più presto! Più vita! ( Volgendosi al pubblico del teatro) Eccoli là, neri, piccoli, tanti….Eccoli i denti dell’ingranaggio, Eccellenza. I vecchi, poi, quelli ci pensano i figli, a schiacciarli”).

La ricerca della verità giudiziaria muta in tensione gnoseologica ed escatologica. Per comprendere il significato dell’esistenza, in cui vita e morte convivono, bisognerà chiamare a deporre coloro che l’hanno perduta, i defunti, le vittime dell’evento.

La frana diventa così un dramma esistenziale che è un indizio di un dramma più profondo,  laico e religioso insieme, quello relativo alla ineluttabilità della sofferenza nella vita dell’uomo e alla sua funzione catartica.

I magistrati Parsc e Goetz si lasciano convincere dai discorsi del testimonio miope (“Anche voi, sapete, signor giudice! Tutti. Senza nemmeno avvedersene, giù, tutti giù, nel torchio! Numeri. Il rendimento, signore.”),  al punto da riutilizzare le sue stesse parole (“Il testimonio miope –Occorrerebbe un punto fermo, almeno”; Parsc –“…Non si capisce nulla, non si riesce a trovare…un punto fermo” ; Goetz- Trovare il punto: occorre trovare il punto…”). Al giudizio subentra la comprensione, alla condanna la pietà per tutti gli uomini incatenati nella diuturna lotta tra bene e male, tra purezza e corruzione, tra felicità e dolore.

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