di Edoardo Biondi
Il “Museo di storia della Mezzadria” di Senigallia è ospitato nel convento connesso alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie, complesso religioso di elevato pregio storico ed architettonico, immerso nel verde delle campagne senigalliesi. La bella ed interessante struttura museale è stata giustamente dedicata al suo ideatore e fondatore, il Prof. Sergio Anselmi che lo ha diretto dalla sua fondazione (1978) al 2003 e che è stato poi sostituito nella caria dalla Prof.ssa Ada Antonietti, sua infaticabile collaboratrice.
Anselmi è stato un eccellente esperto di storia economica e sociale che si è dedicato con moltissimo impegno e capacità alla ricerca e all’insegnamento, principalmente nei settori della storia dell’agricoltura e delle società rurali (c/o le Università di Urbino e di Ancona, oggi quest’ultima denominata Università Politecnica delle Marche).
Entrambi i Direttori hanno saputo interpretare la gestione del museo come struttura viva, aperta a tutti e soprattutto a quanti hanno interesse per gli aspetti didattici ed educativi nonché relativi alla ricerca di tali aspetti sul territorio dell’Italia centrale. Del resto le eccezionali comunicative e organizzative del fondatore gli hanno permesso di circondarsi di un cospicuo gruppo di intellettuali che lo hanno seguito nelle sue avventure culturali e sociali.
Le due riviste storiche fondate da Anselmi: “Quaderni storici delle Marche” (con Alberto Caracciolo e Renzo Paci) e «Proposte e ricerche» (con Renzo Paci, Ercole Sori e Bandino Giacomo Zenobi) hanno dato e danno voce al lavoro dei ricercatori di questo importante gruppo di esperti. Negli anni sono stati prodotti una cospicua quantità di libri ed articoli scientifici, un vero tesoro di conoscenze sulla vita storico-sociale e del territorio della nostra regione.
Altre attività collegate al museo sono gli annuali incontri denominate “Lezioni Sergio Anselmi” tenute da relatori diversi che possono ricordare e promuovere le opere dell’illustre personaggio. Da ultimo, vanno ricordati i Colloqui su Uomini e Paesaggi che pure annualmente si tengono, nel periodo estivo, nel bellissimo chiostro della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, annesso al museo.
La struttura museale
Il Museo di storia della mezzadria documenta i caratteri del lavoro e della vita del mezzadro marchigiano dal XIX secolo fino agli anni sessanta del XX secolo. Si tratta di un’organica e scientifica rassegna di circa 30 ambienti riguardanti la vita vissuta nella casa colonica, comprese le attività lavorative che in questa si realizzavano per la trasformazione dei prodotti agricoli, quali la cantina (Foto 3) ed il frantoio (Foto 4). Nella casa colonica dell’epoca si producevano però anche molti manufatti di lana, lino e canapa le cui fibre venivano nella stessa filate per produrre gli indumenti necessari a tutta la famiglia
(Foto 5). Il museo presenta inoltre una importante attività marchigiana dell’epoca che era l’allevamento domestico del baco da seta che si realizzava in una apposita stanza detta bigattiera. L’allevamento del baco che si nutre esclusivamente delle foglie del gelso (bianco e nero), caratterizzerà notevolmente anche il paesaggio agrario marchigiano durante il periodo mezzadrile per la grande diffusione che questi alberi nelle zone collinari della regione. Di questa coltivazione restano attualmente per lo più piccoli ma significativi esempi di filari alberati, lungo alcune strade camporili. Nell’aia della casa contadina si allevavano piccoli animali (animali di corte) utilizzati in parte per l’alimentazione della stessa famiglia che venivano pure venduti mentre l’attività zootecnica principale si svolgeva nelle stalle dove vivevano e si riproducevano le belle vacche bianche, di razza marchigiana, utilizzate anche per il lavoro nei campi per tirare l’aratro (Foto 6 e 6a) ed il biroccio (Foto 7). Di questi ultimi il museo espone delle collezioni alle quale si ne aggiungono molte altre costituite dagli utensili che servivano, ad esempio, utilizzati per tagliare il legno, costruire le botti, potare gli alberi, irrorare le viti con il verderame, ecc. Nel complesso l’esposizione museale comprende ben oltre 2000 oggetti.
L’epoca della mezzadria
Cosa sia la Mezzadria è semplice esplicitarlo, si tratta di un contratto di affitto mediante il quale il proprietario di un fondo agricolo – comprendente la casa colonica e gli altri fabbricati necessari all’attività agricola – lo concede ad una famiglia contadina affinché lo mantenga, attraverso una buona conduzione agricola, concedendogli come canone di locazione metà del raccolto che annualmente realizza. Mezzadro è il colono, il capofamiglia che, unitamente agli altri componenti il nucleo famigliare, gestisce il fondo agricolo.
Il contratto di mezzadria definisce pertanto una particolare forma di lavoro associativo che si consolida, intorno alla metà del XII secolo, in diverse zone d’Italia centrale (Toscana, Umbria e Marche) con espansione prevalente in alcune aree del nord-est d’Italia e che terminerà di esistere verso la metà del XX secolo.
Ci si potrà quindi chiedere perché il contratto di mezzadria, venga ancora oggi studiato e meriti di essere ricordato, sino al punto di dedicargli un intero museo. La risposta a questo interrogativo è legata alla sorprendente storia delle famiglie mezzadrili che direttamente, mediante il lavoro di tutti i suoi componenti, riescono a migliorare le proprie condizione economiche, divenendo nel contempo, parte attiva di una rilevante trasformazione sociale e territoriale delle comunità.
La forza motrice di questo riscatto è ovviamente la volontà di raggiungere un benessere materiale che prima non poteva essere ricercato in quanto mancavano con i vecchi contratti agricoli, i presupposti elementari. Il contratto mezzadrile ovviamente per le sue caratteristiche limiterà ancora moltissimo il pieno raggiungimento di questi obiettivi ma rappresenta comunque una significativa spinta liberale, rispetto al passato. Inizia con la mezzadria un lungo percorso che, seppure irto di difficoltà, nei secoli successivi porterà i coloni e le loro famiglie alla gestione diretta dei fondi e quindi mediante tappe successive, alla trasformazione del loro ruolo per raggiungere quello di imprenditori agricoli.
E’ durante il periodo della mezzadria che le capacità lavorative delle famiglie contadine creano nuove forme produttive diffondendo, su tutta la collina, la coltura promiscua, costituita dalla consociazione di più essenze agricole nello stesso appezzamento, in modo di aumentare la varietà delle produzioni a diretta disposizione della famiglia contadina. Questa consociazione di produzioni agricole porterà nelle zone collinari dell’Italia centrale a far assumere al nostro paesaggio agrario aspetti molto caratteristici, ampiamente diffusi che si manterranno sino alla fine della prima metà del XX secolo. Fra le coltivazioni la più frequente è quella della “vite maritata” che si sviluppa avvinghiata al proprio tutore vivo, detto “oppio” che nella maggior parte dei casi è l’acero campestri o l’olmo. Questo viene potato in modo d’aprire la chioma dell’albero per assicurare, alla vite e ai suoi frutti, la necessaria esposizione alla luce. Tra i filari di vite veniva coltivato il grano e talora anche le leguminose come la fava ed il favino o l’erba medica.
Il contadino crea inoltre la stabilizzazione di terreni, regimando i fossi, riducendo le pendenze dei campi in modo da poterli mettere a coltura. La nuova morfologia la crea costruendo terrazzamenti, in pietra con muti a secco, più o meno importanti o semplici ciglionamenti, scarpate in terra, che vengono resi stabili mediante il sapiente utilizzo delle piante spontanee. Queste tecniche d’intervento consentono al contadino di aumentare la produzione agricola e, nel contempo, di realizzare quello che ancora oggi viene definito il paesaggio della mezzadria (Disegno 8).
E’ il bel paesaggio che abbiamo ereditato dai nostri avi e che non siamo purtroppo riusciti a mantenere, in quanto le condizioni socio-economiche del XX secolo non sono più le stesse di quelle delle epoche mezzadrili. L’avvio dell’agricoltura industrializzata con l’avvento della meccanizzazione agricola porterà ad aumentare a dismisura le produzioni e quindi, per raggiungere questi obiettivi, saranno distrutte, buona parte, delle infrastrutture agricole create dai nostri mezzadri. Il risultato di questa azione sarà la fine dello stabile paesaggio creato con sapienza dai nostri contadini. L’aratura profonda inoltre, per lo più effettuata nel verso della maggiore pendenza del campo (tecnica del rittochino), avvierà un grave processo di erosione dei suoli. A tutto ciò si associa inoltre l’inquinamento del terreno e delle falde freatiche dovuto all’uso e spesso, all’abuso di erbicidi e fertilizzanti chimici (Disegno 9 e foto 9a).
Il nostro Anselmi è stato tra i primissimi a cogliere il pericolo di queste trasformazioni in quanto consapevole del valore territoriale e sociale del paesaggio agrario mezzadrile. Tra le testimonianze più eclatanti dell’epoca ci restano le artistiche foto di Mario Giacomelli, del quale il Museo conserva un’eccezionale collezione, donatagli dal maestro senigalliese nel 1978.
Questa breve presentazione dell’ambiente in cui la mezzadria è nata e si è sviluppata e del valore del paesaggio che è riuscita a creare si può chiudere con le significative frasi di Roberto Polidori:
“Lungo un periodo di mille anni la mezzadria è nata, si è affermata ed è morta. Tuttavia buona parte del paesaggio agrario dell’Italia centrale è stato determinato dalle strutture produttive mezzadrili: il podere e la fattoria […. ] Non è poco per una forma di conduzione definita (da alcuni) residuo feudale, tanto più che queste stesse funzioni di produzione di beni pubblici e integrazione di filiera costituiscono obiettivi per il futuro della Politica Agricola Comunitaria”. (http://agriregionieuropa.univpm.it/)