Sul mito. Una riflessione

di Graziano Ripanti

I miti hanno sempre accompagnato l’origine e il divenire storico di ogni civiltà e, in modo  particolare, delle varie religioni del mondo, anche di quello cristiano, tanto che uno dei più grandi esegeti del Nuovo Testamento come Rudolf Bultmann  ha cercato e posto come inizio e finalità dell’ermeneutica biblica la demitizzazione del messaggio di salvezza dalla concezione tolemaica dell’universo e l’esistenza umana dal dominio di spiriti malvagi o spiriti buoni che negano così  la libera volontà umana.
Sul mito c’e’ una storiografia pressoché sterminata ed è stato uno dei temi più dibattuti nei famosi convegni internazionali svoltisi tra gli anni 1960 e 1970 alla Sapienza di Roma guidati dal prof. Enrico Castelli: si dibattevano le varie metodologie interpretative, dove il sincretismo costituiva la modalità più diffusa ma incapace di rispondere unitariamente a questa apparentemente semplice domanda: qual è la verità del mito ?  che cosa ci annuncia ancora?

I miti ormai hanno definitivamente perduto il sacro splendore del mattino. Il divino in essi annunciato è, da tempo, obsoleto e l’Olimpo è abitato da aride pietre. Quel divino, in realtà, era  troppo umano e non ha resistito  all’urto epocale di  quell’evento che ha prodotto il vero crepuscolo degli  dei. Ma, se dai templi distrutti gli dei sono fuggiti per sempre, i miti possono ancora annunciare un ricco senso dell’umano, per la nostalgia dell’origine. I miti perdurano: in essi c’e’ un senso che già Aristotele assimilava al pensiero: o philomythos philolosophos pòs estin. ( Metaph. 1, 982b. ): il mito è narrazione che desta meraviglia e la meraviglia è l’inizio della filosofia, poiché implica la coscienza di non sapere.

Allora il mito risponde originariamente ad una sete di conoscenza, per cui non è né una favola vuota né una fuga utopica. Nella sua essenza può essere fonte inesauribile di significato:  “ diventa egualmente credibile che dietro il significato che il mito immediatamente dà, se ne nasconde un altro, più ampio “ ( G. W. F. Hegel   Estetica   a cura di N. Merker, Torino 1972, p. 351 ). Come tale esso è linguaggio e si offre a essere interpretato e, da tempo, già con la discussione tra ermetisti e illuministi, è sorta la scienza del mito che ancora si  dibatte sul problema della sua natura. La sua eccedenza di senso ha reso difficile ogni impresa scientifica: la sua essenza permane nascosta. Il mito, forse, resta inobiettivabile, appunto come il linguaggio. Poiché è anzitutto parola originaria  che narra modelli di azioni umane, senso primordiale del mistero della vita, dell’amore e della morte. Il suo codice linguistico è omogeneo, i suoi simboli si riferiscono solo a se stessi, per cui narrare il mito lo si può solo in forma mitologica. Al di là, dunque, di ogni impresa scientifica questa tautologia resta insuperabile. Il mito permane presente e vivo nei vari ambiti in cui si esprime l’umano : nella filosofia e nella scienza, dove non v’è poi tanta distanza tra Mythos e Logos, nella letteratura poetica (basti ricordare il mito di Ulisse), nelle arti figurative, da quelle antiche e rinascimentali alla mitologia di De Chirico. I significati del mito si consegnano, non senza una loro profonda modificazione (si pensi  all’Ulisse di Dante e di J. Joyce) solo a una presa non oggettivante : l’arte anch’essa come linguaggio originario narrante, si rivela come luogo autentico per una più profonda ricognizione del mito.

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