di Romano Folicaldi
Abbiamo dovuto interrompere, per cause di forza maggiore, Paola ed io, il viaggio a Bologna organizzato nel settembre scorso da Le Cento Città, e questo aveva fatto sorgere in me anche il rammarico che non sarei potuto tornare, sulla via del ritorno, alla Sangiovesa, di Sant’Arcangelo di Romagna, l’osteria/ristorante in cui i mangiari di questa terra si sposano e fanno un tutt’uno con le austere e intense mura di Palazzo Nadiani, le giunoniche forme delle donne di Federico Fellini rivisitate da Marco Bravura, i poster e le scritte su ceramica di Tonino Guerra.
Questo locale, che sorge nel cuore della città, è nato dal dialogo tra l’editore Maggioli, che ne è il proprietario e Tonino Guerra.
Tonino Guerra, scomparso di recente, è stato un pò il nume tutelare di questa parte della Romagna confinante con le Marche e che comprende una parte del Montefeltro, un personaggio che, con la sua notorietà conseguita nel mondo del cinema, ma anche per mezzo delle molteplici frecce al suo arco, era diventato il garante di una tradizione che altrimenti non avrebbe avuto la visibilità di cui continua a godere, a fronte della prepotente attrattiva esercitata dalla riviera romagnola.
Magari San Leo, con la sua Rocca ultima dimora coatta di Giuseppe, Giovanni Battista, Vincenzo, Pietro, Antonio, Matteo Balsamo, Conte di Cagliostro, e Talamello con il suo Formaggio di Fossa, di una loro notorietà avrebbero goduto lo stesso.
Tonino Guerra per molti aspetti si identifica con Sant’Arcangelo: tanti anni fa, eravamo andati là con un amico per andare a vedere questo mostro sacro, e non sapendo dove abitasse, ci eravamo fermati in un officina per chiedere qualche informazione in proposito, e la prima risposta, in tono allegro e scanzonato era stata “Mo chi, quel rompicoglioni?”
Perché giocare a farlo, era uno degli aspetti del suo modo di fare, del suo carattere da provocatore, anche se non certo il solo, e dopotutto non il più importante.
Sant’Arcangelo, è un luogo di Poeti, un luogo che ha dato, e continua a dare poeti che scrivono in quella lingua che è il dialetto romagnolo, con la quale sono capaci di evocare momenti di vita, riflessioni e ricordi con versi che non hanno niente di vernacolare e che in alcuni di loro raggiungono un livello tale che, come ne “I bu” (I buoi) di Tonino Guerra, ne “Al vousi” (Le voci) di Nino Pedretti, ma soprattutto nei libri di Raffaello Baldini, è quello della letteratura italiana tout court, come lo sono i versi di Franco Loi nel dialetto lombardo, continuando lungo la scia di Carlo Porta, Gioacchino Belli e Trilussa.
E Dante Isella e Franco Brevini lo hanno ampiamente dimostrato sul versante critico e interpretativo.
Nino Pedretti, uno di loro, aveva scritto che “ a differenza dell’italiano, arrotolato nei codici, levigato e illustre, il fratello umile, il dialetto, è vissuto all’aperto come un’erba selvatica, bagnato dalla pioggia dei secoli, e come un’erba pertinace di gramigna, si è arrampicato sui monti, si è addentrato nei villaggi, ha coperto ogni metro di terra dove vive la gente comune del lavoro e dei sacrifici”.
La prima, e unica volta, che ero andato alla Sangiovesa, era stato una sera di ottobre del 2000, di ritorno da un pomeriggio trascorso a Pennabilli, in casa di Tonino Guerra, avendo avuto la grande opportunità di entrarvi, intruffolato in una piccola troupe che si era recata da lui per raccogliere testimonianze e ricordi su Nino Rota, il musicista che assieme a lui aveva fatto parte dell’inscindibile sodalizio con Federico Fellini, un’amicizia e una capacità di intesa, una complicità che raggiungeva, nei racconti che ne venivano fatti, livelli a volte surreali.
Di questa collaborazione restano i documenti artistici, certo, ma con la scomparsa anche di Tonino Guerra credo se ne siano persi i sapori, il gusto e gli odori.
Avevo portato con me la vecchia edizione de “I bu” per farmici mettere la sua firma: non volevo una dedica che il più delle volte, ovviamente, suona innaturale, e lui mi ci aveva fatto sopra il disegno che potete vedere anche voi, tra le fotografie fatte a Pennabilli e alla Sangiovesa.
Mi ha sempre fatto molto effetto questo suo rimanere così attaccato ai luoghi d’origine, anche fisicamente, lui che era stato capace di essere lo sceneggiatore, dei films di Fellini e di Antonioni e non solo, ma anche di altri mostri sacri del cinema quali Andrej Tarkovskij e Theo Angelopulos: credo che una aspetto di questo legame ai suoi luoghi , al suo habitat si riflettesse anche sul suo modo di vestire dal carattere popolare e “di una volta”.
Il fatto di aver acquisito notorietà e prestigio nel mondo del cinema, era servito sicuramente ad attirare l’attenzione sulla produzione poetica che era fiorita e continuava a fiorire a Sant’Arcangelo, e a darle ulteriormente corpo, era stata anche la lunga presenza in Romagna del linguista austriaco Friederich Schurr, il maggior studioso di questo dialetto.
I suoi studi sul campo, era stato il primo a usare il magnetofono per queste ricerche, lo avevano anche portato alla conclusione che la presenza bizantina dell’Esarcato dal VI all’ VIII secolo aveva isolato questi territori dall’influenza longobarda del resto della pianura padana, mantenendone così caratteri linguistici originari e peculiari.
Ma non meno intensa era per me la curiosità di vivere, a distanza di tempo, e portandomi dietro tutti i bagagli che il trascorrere degli anni mi avevano, come dire, caricato sulle spalle, la curiosità di vivere, dicevo, l’ avvicinarmi e varcare il confine tra Marche e Romagna, questa volte venendo da nord, dopo che Ettore Franca, più di una volta, ci aveva fornito l’occasione di vivere queste sensazioni, venendo dal versante opposto.
Il confine sulle cartine geografiche è un tratto netto, e anche sull’autostrada ci sono dei cartelli che dicono che state lasciando le Marche, e che lì comincia la Romagna, e viceversa quand ca turnè indrì, quando tornate indietro, ma la vita è un’altra cosa: da una parte c’è il castello di Gradara di Paolo e Francesca, e dall’altra parte vedi il Cimitero di Guerra dove sono sepolti quasi milleduecento soldati, giovani vite venute da tutto il Commonwealth per morire sulla Linea Gotica.
E anche la vicenda, o almeno una parte della vicenda di Tonino Guerra, era stata un vai e vieni tra Romagna e Marche: quando era ancora un ragazzo, suo Padre veniva con il camioncino da Sant’Arcangelo a vendere la frutta a Pennabilli.
Lasciava lì Moglie e cassette, e andava a fare un carico di carbone di legna sulle colline: quando tornava caricava Moglie e cassette, che se le cose non erano andate proprio bene, sembra che la cosa non andasse liscia.
Che poi lui quando era già diventato Tonino Guerra, aveva lasciato Sant’Arcangelo per andare a stare a Pennabilli, nelle Marche, ma la Romagna gli era andata dietro, perché quella parte delle Marche era tornata a far pare del dolce paese dove regnaron Guidi e Malatesta.
E’ stato un piccolo aggiustamento territoriale in cui almeno non ci sono stati spargimenti di sangue: recriminazioni si, ma non è questa la sede in cui eventualmente parlarne.
Le immagini riportate, Tonino Guerra a Pennabilli e La Sangiovesa, sono opera di Romano Folicaldi.