di Giorgio Rossi
Nei miei lunghi e ormai lontani anni trascorsi nell’ambito dell’Esercito Italiano ho avuto la possibilità di conoscere da vicino un certo numero di Cappellani Militari, riportandone complessivamente un ricordo positivo sotto ogni profilo.
Dapprima, rivestendo i gradi iniziali della carriera, posso dire di aver trovato nel Cappellano un interlocutore prezioso per esercitare al meglio l’azione di guida e di controllo sugli uomini che mi venivano affidati.
Salendo nei gradi e trovandomi a rivestire incarichi di comando più ampi ed onerosi, ho sempre apprezzato l’utilità di avere a disposizione, attraverso il Cappellano, una linea aperta e diretta per risolvere anche i tanti problemi, piccoli e grandi, che frequentemente si presentano al Comandante di una caserma.
La Grande Guerra vide operante in ogni reparto il Cappellano, ma la nascita di questo componente attivo del complesso militare non fu facile né da tutti condivisa come si potrebbe pensare.
I Cappellani Militari erano già presenti nel Regno di Sardegna con la denominazione di “elemosinieri”, ma nel 1866, dopo la sconfitta a Custoza del neonato Esercito italiano contro l’Esercito austriaco, essi vennero aboliti anche in considerazione dell’allora forte antagonismo tra Stato e Chiesa.
Dopo una loro sporadica presenza durante la campagna di Libia (1911-’12), nell’aprile 1915, nell’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia, il Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna, uomo molto religioso, istituì ufficialmente la figura del Cappellano Militare stabilendo che questi fosse presente in ogni reggimento, battaglione, ospedale, infermeria, treno ospedale, reparto di sanità; venne così formato un corpo di oltre 2400 Cappellani guidati da un “vescovo al campo” nominato da Papa Benedetto XV, che venne inserito nelle Forze Armate con il grado di Generale.
In proposito, va ricordato che i Cappellani non erano solo di fede cattolica, ma anche della Chiesa Evangelica Valdese (9 in tutto), alcuni della Chiesa Battista e anche di religione ebraica.
Con questo provvedimento lo Stato Maggiore ricercava il contributo dei Cappellani ritenendoli idonei a promuovere coesione morale e spirito di disciplina attraverso la diffusione di sani e patriottici sentimenti che sarebbero scaturiti dal richiamo a principi morali e religiosi.
Conclusa la Grande Guerra, nel 1922 il servizio del Cappellano Militare venne soppresso, ad eccezione di quello svolto per la raccolta delle salme dei caduti e per la sistemazione dei numerosi cimiteri di guerra.
Successivamente, con legge n.417 del 11 marzo 1926 venne costituito l’Ordinariato Militare che tuttora organizza e dirige tutto il Corpo dei Cappellani Militari che, appunto, celebrano la loro festa l’11 marzo di ogni anno, anniversario della loro definitiva istituzione.
Nella Grande Guerra, i compiti dei Cappellani erano alquanto complessi ed articolati, arrivando talora a condurre le truppe in azione per sostituire ufficiali caduti in combattimento.
In particolare il Cappellano, oltre ovviamente a celebrare la Messa, compilava gli atti di matrimonio per procura, apponeva nella tabellina diagnostica dei feriti le tre lettere “o.c.p.” (olio santo – comunione – penitenza), dava l’assoluzione individuale e di massa, impartiva l’indulgenza plenaria in punto di morte.
I Cappellani erano quasi tutti parroci di campagna o giovani appena usciti dai Seminari che all’improvviso, dalle meditazioni degli altari e dalle confidenze bisbigliate nei confessionali, erano stati proiettati tra le scariche di fucileria, gli scoppi delle bombe, i colpi dei cannoni.
Molti partivano convinti di essere stati chiamati a compiere un’opera di carità cristiana ed a diffondere il Vangelo tra i soldati sofferenti, con i quali chiedevano di stare a contatto invece di essere mandati in qualche struttura lontano dalla linea del fuoco.
In pratica, i Cappellani si trovavano sempre più spesso a ricoprire un ruolo con due risvolti anche contrastanti tra loro: diffondere appunto i dettami evangelici e, nel contempo, rafforzare nei soldati la volontà di lottare come militari dediti all’unico fine di giungere alla vittoria per il bene della Patria.
Come racconta lo scrittore Giorgio Rochat nel suo voluminoso libro (oltre 500 pagine) “La grande guerra 1914-1918”, “Dai Cappellani si pretendevano atteggiamenti militareschi, degni di un Ufficiale dell’Esercito: che sapessero salutare, muoversi, marciare con un minimo di marzialità”.
Per il Cappellano quindi un doppio impegno, uomo di Dio e Ufficiale.
Ancora il Rochat scrive che per essi c’erano “da una parte la predicazione, la cura delle anime ed un’assistenza che potremmo dire pastorale, dall’altra una partecipazione all’organizzazione del consenso dei soldati, che poteva andare da un’assistenza generica alla propaganda bellica fino ai casi limite di Cappellani che accettavano ruoli di comando vero e proprio, pur sempre temporaneo”.
I Cappellani avevano il grado di Ufficiale e vestivano la divisa che era di colore grigioverde, la stessa degli Ufficiali, con le stellette a cinque punte sul bavero, gradi sulle maniche ed una croce rossa cucita sul lato sinistro del petto; avevano inoltre il collare ecclesiastico ed un crocifisso appeso ad un cordone grigioverde portato al collo; in testa, il normale berretto con le insegne del grado.
Lo storico Angelo Mataloni, nel suo volume I Cappellani Militari nel primo conflitto mondiale, descrive molto bene il complesso di compiti a cui erano chiamati i Cappellani; testualmente:
“ La loro azione doveva anche essere una sorta di propaganda così da far emergere nella truppa i sentimenti più sani, quali l’onestà, la generosità, l’altruismo, il rispetto dei valori personali, l’amor patrio, il valore, l’osservanza dei doveri, l’ardimento, l’obbedienza e la rassegnazione al sacrificio.
Un compito certamente non facile.
Tuttavia i soldati, che nei lunghi momenti di inattività si riscoprivano “uomini”, trovavano nel proprio Cappellano un prezioso confidente, un ponte tra l’orrore della trincea ed i ricordi del proprio paese, tra la violenza e la bontà di Dio.
Davanti alla divisa del Cappellano ed alla Croce rossa cucita sulla sua divisa, il soldato si sentiva al riparo dalle inquietudini che la guerra insinuava nel suo animo.
Il Cappellano era spesso l’unica persona con cui aprirsi totalmente.
Sia gli Ufficiali che i soldati semplici stringevano rapporti molto stretti con il Cappellano, confidando a lui dubbi, ricordi e malinconie.
Per molti soldati diveniva una presenza preziosa.
A lui si potevano comunicare le paure e le angosce che all’Ufficiale venivano nascoste.
Durante le confessioni, il soldato riscopriva di essere un uomo degno di avere cinque minuti di attenzione; il Cappellano ascoltava, consigliava e soprattutto perdonava “.
In tutta la tragicità della guerra, tra il Cappellano ed i soldati si instaurava un rapporto di amicizia ed affetto profondissimo.
Nel diario di un fante si legge:
“ Le perdite sono state molte, anche di persone carissime, tra le quali annovero il nostro Cappellano Don Ponte che, colpito dalle schegge di una granata mentre raccoglieva e confortava i feriti, ebbe ancora la forza di accennare nell’aria un largo segno di benedizione”.
Molti furono i personaggi di spicco che militarono tra i Cappellani, che poi ebbero notevole rilievo sia per la Chiesa che per lo Stato italiano; ne ricordo solo alcuni:
Don Primo Mazzolari, il cui pensiero anticipò teorie e dottrine che saranno discusse nel Concilio Vaticano II (1962-1965);
Don Giovanni Minzoni, che fu in seguito martire antifascista;
Padre Giulio Bevilacqua, che sarà fatto Cardinale da Papa Paolo VI;
Don Angelo Giuseppe Roncalli, che nel 1958 diventerà Papa Giovanni XXIII;
Padre Agostino Gemelli che sarà tra i fondatori dell’Università Cattolica (1920).
Tra i caduti in combattimento, è doveroso ricordare il sacrificio di Don Pacifico Arcangeli, cittadino di Treia (Macerata), che perse la vita sul Monte Grappa, decorato con medaglia d’oro, nella cui motivazione si legge:
“Eroica figura di sacerdote e di soldato, durante cruento combattimento, ottenuto dopo viva insistenza di unirsi alla prima ondata di assalto, slanciavasi, munito soltanto di bastone, alla testa dei più animosi, giungendo primo sulla trincea nemica. Colpito mortalmente al ventre da scheggia di granata, incurante di sé, rimaneva in piedi, appoggiato ad un albero, ad incorare i soldati. Trasportato a viva forza al posto di medicazione, sebbene morente, consolava con stoica virtù gli altri feriti e spirava glorificando e benedicendo , la fortuna delle nostre armi”.
Ricordo anche Padre Elpidio Stortini di S. Elpidio a Mare, decorato con medaglia di bronzo, che nell’ultimo decennio di vita si dedicò al servizio dei malati nel civico Ospedale di Ancona e che, nel trigesimo della sua morte (1952), fu così ricordato dai suoi confratelli:
“Religioso e Sacerdote integerrimo, eroicamente fedele agli impegni assunti, ingemmò la sua vita di virtù francescane nella dedizione di sé a Dio ed al prossimo.
Figlio devoto alla Patria, i campi cruenti di battaglia ne ammirarono l’instancabile e coraggiosa operosità di Cappellano decorato al valor militare”.
Nella tragica e terribile realtà della guerra, uno dei compiti più atrocemente drammatici svolto dai Cappellani era l’assistenza ai condannati a morte dai Tribunali militari o nel corso delle numerose decimazioni ordinate dopo la disfatta di Caporetto.
Trovarsi davanti a soldati che piangono e urlano mentre il plotone di esecuzione è schierato e pronto a fare fuoco è un’esperienza agghiacciante che nessun seminario poteva aver loro insegnato ad affrontare.
Padre Reginaldo Giuliani, che fu a fianco degli Arditi della III Armata meritando una Medaglia d’argento ed una di bronzo, così ricorda quei momenti:
“ Chi poteva affrontare il grido di disperazione prorompente da queste anime alla proclamazione della sentenza? I giudici si allontanavano….
Il sacerdote era l’unico consolatore che potesse avvicinare quelle agonie forzate e richiamarle dallo stordimento con le parole della consolazione divina…”
Ne fa un racconto angoscioso e commovente Don Giovanni Minzoni di Ravenna, Cappellano del 3° Reggimento Bersaglieri; egli, dopo aver assistito un condannato fino al momento della fucilazione, tornato al suo Reggimento, tra l’altro, raccontava:
“ Il condannato, che aveva dato qualche lamento, fu posto in un rialzo e ad un tratto si vide il gesto del sottotenente.
Tutti ci voltammo per non vedere: i soldati di servizio chiusero gli occhi……udimmo la scarica che non mi parve simultanea, forse a causa del tremito dei giustizieri.
Io guardai in quell’istante e vidi il corpo colpito sussultare come spinto in avanti.
Accorse il medico; si muoveva ancora.
Si ordinò un’altra scarica.
I soldati che avevano sparato sembravano spossati; molti si asciugavano il sudore.
Si dovette procedere alla constatazione della morte; quindi spogliarlo così insanguinato e descrivere le parti colpite.
Io gli diedi l’assoluzione e feci le esequie; fu ricoperto e dopo steso l’atto di morte ce ne ritornammo alla sede del Reggimento.
Il sole era già alto quando narrai le mie impressioni e parlando della piccola figlia del condannato che aveva mandato al babbo un santino, ebbi un nodo alla gola e non potei più parlare. Non mi auguro più di assistere a scene simili.”
Sono parole che toccano nel profondo e che fanno ben comprendere quale immane e assurda tragedia si sia consumata in quei terribili anni, lontani ormai un intero secolo.
Avviandomi a concludere, credo che sia giusto affermare che i Cappellani, o “soldati di Dio”, come qualcuno li chiamava, furono sotto ogni profilo una delle figure più significative del popolo in armi nella Grande Guerra.
Essi erano uomini che, in situazioni estreme, sapevano offrire un sorriso e una parola di conforto e di speranza ai tanti che soffrivano nelle trincee, condividendo senza riserve la penosa sorte dei soldati.
Infine, lasciatemi ringraziare “Le Cento Città” per avermi dato l’occasione di parlare su questo tema che mi ha fatto riscoprire uomini e valori che il tempo ha sbiadito e che oggi molti, con colpevole distrazione, vanno sempre più dimenticando.
Dal Forum La Grande Guerra, Tolentino 22 novembre 2014