Musicisti e interpreti del melodramma nelle Marche

di Fabio Brisighelli

 

Formidabili quegli anni lontani, quegli anni ‘30 del Settecento che assistettero a Londra alla gara ravvicinata, tra gli altri, di due straordinarie voci di “evirati cantori”. Certo il castrato Carlo Broschi Farinelli, nativo di Andria (allora annessa al territorio napoletano) poteva definirsi l’indiscusso re della categoria di queste mitiche voci del “belcanto”, capaci di coniugare, lungo il percorso di tre ottave, il cosiddetto “edonismo”, ovvero la soavità e la tenerezza patetica del suono vocale, con il “virtuosismo”, ovvero l’ardimento stupefacente di un canto fatto di vocalizzazioni fantasmagoriche e di agilità infittite: “One God, one Farinelli”(“Un solo Dio, un solo Farinelli”) dicevano di lui i londinesi, mentre le dame del bel mondo che affollavano il Covent Garden o il King’s Theatre cadevano spesso in preda, ad ascoltarlo, a veri e propri “orgasmi” musicali.

Ma Farinelli ebbe in quella  grande capitale della musica, in quegli stessi anni, un formidabile rivale: Giovanni Carestini detto il Cusanino (dalla famiglia Cusani che lo accolse da giovane a Milano), che era nato nelle Marche, a Filottrano, e che entrò nelle grazie di Händel fors’anche di più dell’altro, notoriamente legato al compositore rivale Porpora.

Quando Carestini intonava con dolcezza infinita “Verdi prati, selve amene” dall’“Alcina” di Händel, la commozione del pubblico era incontenibile. E se è vero che a dare lustro musicale alla nostra regione c’era già stato pochi anni prima un compositore del livello eccelso di Giovanni Battista Pergolesi di Jesi, che ha lasciato un segno indelebile nei musicisti a seguire di quel secolo, fino a Mozart, è certo che a livello di quelle mitiche voci del belcantismo di derivazione barocca le Marche furono da subito in prima fila nel formidabile contributo alla causa del melodramma.

Sul versante infatti dei più grandi esponenti dei cantanti evirati, che monopolizzarono a lungo i ruoli di “amoroso” nell’opera, possiamo annoverare nel tempo Gaspare Pacchierotti di Fabriano (seconda metà del Settecento), Girolamo Crescentini di Urbania, che col suo canto, agli albori dell’Ottocento, riuscì a commuovere persino Napoleone, che lo volle maestro di canto della famiglia imperiale; per concludere con l’ultimo eminente nome della categoria, quello di Giovanni Battista Velluti di Corridonia, per il quale Rossini scrisse nel 1813 l’“Aureliano in Palmira”, lamentandosi del fatto che con l’ormai definitiva uscita di scena di quelle incomparabili voci si era perduto per sempre  “il cantar che nell’anima si sente”.

Se i suddetti interpreti marchigiani di nascita sono stati per così dire gli antesignani della grande rinomanza musicale acquisita in tre secoli dal nostro territorio, certamente due sommi musicisti come Gioachino Rossini e Gaspare Spontini, attivi nella prima metà del secolo romantico e con il precedente al pari illustre del già ricordato Pergolesi, basterebbero a contrassegnare le Marche all’insegna di una plusvalenza rispetto a tante altre regioni d’Italia per ciò che riguarda la musica.

Ma non finisce qui: il Novecento appena trascorso, il secolo d’oro dell’interpretazione lirica moderna giunta fino ai giorni nostri, dove lo mettiamo? Vogliamo ricordare, per limitarci alle presenze più rilevanti all’insegna della “marchigianità”, i nomi di due tenori come Beniamino Gigli e Franco Corelli, osannati nel corso della carriera dai pubblici di tutto il mondo, a partire da quello americano?

Gigli in particolare contende da sempre a  Enrico Caruso la palma della migliore voce nel suo registro a memoria d’ascolto. A loro si affiancano due soprani di riferimento assoluto come Renata Tebaldi e Anita Cerquetti, che ci ha lasciato per sempre pochi mesi fa. E poi ancora un baritono della dirompente personalità di Sesto Bruscantini, ineguagliabile segnatamente nel repertorio buffo.

Insomma, per anni la nostra regione è stata classificata “eccentrica” rispetto ai poli e alle direttrici principali di sviluppo: ma questo, come si è visto, non vale certo per il versante musicale, dove rispetto ad altre realtà similari del Paese occupiamo stabilmente una posizione di vertice.

E oggi, nell’anno del Signore 2015? C’è almeno un nome idoneo a rinverdire i fasti di un passato lontano e vicino nel tempo: quello di Michele Mariotti, pesarese “figlio d’arte”, un direttore d’orchestra giovane e affermato nelle piazze nazionali e internazionali: proteso, in virtù delle sue eccezionali prestazioni sul podio, ad ascendere verso l’Olimpo del teatro d’opera.

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